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Visualizzazione dei post da maggio, 2021

Un campo di stelle

Avrei voluto che questo post fosse una festa, perché è il cinquecentesimo, perché ci sto pensando da due settimane, perché è un piccolo vanto esser arrivato così lontano. Avrei voluto ringraziare tutti gli amici che mi leggono, offrir loro una fetta virtuale di torta all'arancio, brindare davanti ai computer, guardarmi indietro e dire Cacchio, ma davvero le ho scritte io tutte queste avventuricole? Davvero questo blog è il mio confessionale laico da nove anni a questa parte? E invece. Invece arrivano notizie che sono come un bombardamento, e mi fanno sentire in colpa per tutta la vita non pòrta a chi di tanto in tanto me ne chiedeva un sorso, per i messaggi cui non ho risposto, per essere stato sordo alle implorazioni. Avevo i miei motivi, alcuni dei quali neanche troppo campati in aria, ma adesso non contano più, adesso mi dispiace: se quel che ho commesso fosse un reato mi costituirei. E dunque la festa è rimandata, e magari quando sarà la faremo live e verrà più divertente. No

Padri e figlie

  Ho allevato mia figlia all'aperto, a terra e senza mangimi chimici. Le ho seminato il percorso di cose che io trovo strabilianti, e lei senza darlo a vedere le ha raccolte, e queste sono le conseguenze: malinconie a tutto spiano. Lo sapevo che sarebbe andata così, ma non ho saputo trattenermi. Lo sapevo che il prezzo di tutte quelle inutili, cervellotiche opere monumentali sarebbe stato un disamore verso il prossimo, una diffidenza costante, ostinata, e - lo stesso - non ho fatto nulla per impedire che accadesse. Perché quando ti innamori degli artisti non hai più tempo per i comuni mortali, tutti ti sembrano spaventosamente insignificanti. Ero malato di questo male anch'io, di questo disprezzo, e ora sono guarito, ora m'intingo nel mondo e ne trovo sollievo, e mi confortano gli amici, e le compagnie occasionali, e perfino sbicchierare a ore piccole, qualche volta, reca con sé una felicità non trascurabile. Adesso tocca a lei: devo suggerirle il percorso inverso, il ritor

Il vicino di casa

Una ragazza dalle natiche fiere, dritta come un punto esclamativo, stamane all'ora di punta attraversava a suo rischio e pericolo via Turati, infischiandosene delle auto che smadonnando le inchiodavano a un centimetro dai pantaloni e degli occhi dei maschi che le cercavano il fondoschiena. Si era come tuffata sulle strisce pedonali, camminava impettita sfidando la sorte, guardava i mentecatti dentro le loro automobiline ed era come se si prendesse gioco di loro, e di me per primo, che stavo in cima alla fila. Tuttavia, siccome tra le poche certezze che ho c'è quella di essere un galantuomo, anziché guardarle il sedere l'ho guardata in faccia, e l'ho riconosciuta: era la fidanzata di un mio antico vicino di casa, parlo dell'ultima casa cittadina dove ho abitato, e che stava proprio nell'appartamento sotto al mio. All'epoca, sei o sette anni fa, quel tipo - che faceva l'infermiere - mi era cordialmente antipatico. Non c'era un motivo preciso: non aveva

La casa che verrà

  Aspettare non è mai una buona idea. Aspettare che tutto sia a posto per vivere, dico. Rimandare la vita a quando le cose si saranno aggiustate, rincollate: rotte come sono, sparpagliate, non m'aiutano a essere felice. Ci pensavo venti minuti fa, mentre attaccavo a piedi la salitella che dall'ospedale cittadino scorta fino al Minareto - i narnesi sanno di che parlo; agli altri, se una volta mi vengono a trovare, mostrerò il percorso. Mi sono stancato di cambiare case e non trovare mai un posto decente per vivere. Sapete cosa intendo con vivere ? Ve ne parlo un attimo: magari è la stessa idea che ne avete voi. Per me vivere è aver voglia di tornare a casa, dopo una giornata ostile. Tornare e ringraziare il cielo di aver scelto proprio quel posto lì, con i suoi libri ordinati, le luci blu orientate in un certo modo, la penisola per mangiare col suo piano di granito scuro, la poltrona col poggiapiedi per leggere, e per scrivere lo studiolo diviso dal resto degli ambienti da un mu

Incontri ravvicinati

  La prima notte in bianco che passai la passai ad aspettare i marziani. Non scherzo, credevo sarebbero arrivati da un momento all'altro e se avessi dormito me li sarei persi. Avevo quattordici anni, era estate, di mattina andavo in piscina e il pomeriggio frequentavo il signor greco e il signor latino, ché l'anno prima ero arrivato al sei per miracolo e non volevo soffrire più. Leggevo Il Messaggero , lo comprava Pietro. La pagina dello sport, più che altro, poi quella degli spettacoli. Un giorno mi andarono gli occhi sulla pagina degli Esteri. Mi sa che erano a corto di notizie, e allora avevan pubblicato quella faccenda degli avvistamenti: stringhe misteriose nel cielo, velivoli discoidali, palloni sonda che forse non erano palloni sonda. Così mi ero messo a scrutare il cielo, appena annottava. Da un paio di settimane m'era presa la fissa, e vedevo - o credevo di vedere - strani barbagli, saette blu, fiotti di luce come da lampade stroboscopiche, come se dio avesse lasci

Kate

Un paio d'anni or sono comprai da un libraio ambulante, che girava su un'Ape Piaggio stipata di libri di tutte le fogge, L'idiota , di Dostoevskij. Ero a Tarquinia, c'era il sole, la gente sembrava aver dimenticato di dover morire: rideva, flirtava, mangiava nei ristoranti e salvava sui cellulari i numeri delle case in affitto per le vacanze estive. La copia era incellofanata, per snudarla mi rovinai le unghie, e ad aprirla fece uno sbuffìo come di sollievo, per essere stata liberata dopo tanto tempo. Camminai un po' sulla spiaggia cercando un posto tranquillo per mettermi a leggere. Superai un monticchio di alghe, una scialuppa di salvataggio abbandonata e dietro una duna disegnata ad arco dalle onde trovai una specie di sedile di sabbia quadrato, comodo abbastanza per starci una mezz'ora in pace. Spinsi mute sul cellulare e mi isolai dal resto del mondo. Un temerario sul parapendio scendeva dal cielo, due ragazzi litigavano più per finta che per davvero tra i

L'inaffidabile

  Dir che le amo è troppo ma ho sempre avuto un debole per quelle trattorie dove il menù non è scritto sulla carta ma te lo racconta la proprietaria, o più spesso la figlia, che serve ai tavoli con destrezza, suda un sudore dolce ed è instancabile e professionale come lavorasse in un bistrò parigino. Mi ci sono fermato oggi, in una di queste locande di campagna, al laccio di una nostalgia da solitario che m'ha fatto ricordare quando viaggiavo in buona compagnia e tutto sembrava un'allegra promessa - l'avvenire, i sogni, la gioventù - e tutte le illusioni erano intatte. Mi hanno apparecchiato fuori mentre tornavano certi ricordi di seconda mano che non hanno mai avuto il discutibile onore di essere raccontati, e seppur stortignaccoli, indecisi tra tenacia e oblio, a un certo punto mi son messo a corteggiarli teneramente, come fossero un primo amore. Si confondevano l'un l'altro e così facendo mischiavano stagioni, volti, baci e oscenità, e ne è venuta fuori una memor