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Visualizzazione dei post da marzo, 2024

Padri inconsapevoli

Quando la sera esco per andare a teatro, o per scherzare con la mia ombra e i marciapiedi e le piazze galleggiano nella nebbia, e in giro non c'è nessuno, qualche volta ripenso al tempo in cui - ragazzino - credevo che il mondo smetteva di esistere appena non lo guardavo. Divenne una discreta ossessione, verso i nove o dieci anni. Mi convinsi che era tutto un inganno - casa mia, la città - e che mio padre, mia madre, la gente, gli amici, non fossero altro che attori scritturati per intrattenermi, ritenendo impossibile che altri potessero vivere, morire, giocare a pallone, andare di corpo, lontano dal mio sguardo. Non so se nella psicologia infantile c'è un termine per definire questa pazzia, so che faticavo a farmi capire dai miei, che minimizzavano, cambiavano discorso, e quando io, strepitando, giuravo loro Non esistete! Non esistete! rispondevano Ma come non esistiamo? Che vuol dire? Mi sentii orfano. La notte era una tragedia: avevo paura ad addormentarmi perché nel sonno

Domani mi sposo

Per dieci anni tutte le mattine, andando in radio, ho incontrato una ragazza con un cane al guinzaglio. Un cane di piccola taglia che si chiama Ugo - l'ho sentita chiamarlo, qualche volta, con voce graziosa. Un giorno era vestita leggera, perché incominciava l'estate; un altro teneva i capelli raccolti in un elastico, perché l'estate finiva. Quand'era struccata, appena alzata dal letto, trattenendo uno sbadiglio, sembrava innocente, perfino vulnerabile. Ho sempre avuto un debole per le persone così, le corazze non mi piacciono, tengono a distanza. La mia fragilità si è trovata a suo agio con la loro, e sono venute fuori belle storie. Per dieci anni io e la ragazza col cagnolino ci siamo incrociati, guardati in faccia, abbiamo abbassato gli occhi e qualche volta siamo arrossiti. Una mattina le ho detto Buongiorno , perché non passava nessuno. Ha risposto pudica allo stesso modo, ha sorriso ma guardando per terra, poi io sono salito al lavoro e lei  ha affrettato il passo

Viaggi organizzati

Se un giorno vi va vi porto a guardare la luce nella mia città di mare. Mia beninteso e di nessun altro, perché quando un narratore si innamora, le meraviglie di cui si invaghisce diventano soltanto sue, eccezion fatta per le donne, che sono fiere e indipendenti e mangiano in testa perfino agli uomini senza sogni, figuriamoci a lui. Bisogna arrivare a una certa ora che non è ancora notte e non è più giorno: solo in quel momento la luce ha quel colore di carta cenerina che non scorderai più. Galleggia tra le facciate dei palazzi e penetra nelle cose che ti porti dietro - nei libri, nello zaino che hai comprato dall'Assassino - e capita che per qualche minuto ti dimentichi di tutte le guerre del mondo, personali e collettive. La vedi sospesa sul mare poi, se guardi verso l'orizzonte, ma prima che faccia del tutto sera, quando le barche scrivono righe bianche sull'acqua tornando a riva. Ho raccontato questa città e le sue rifrazioni tutte le volte che ci son capitato e perfino

1983

A quindici anni avevo una fidanzata al giorno, tutte immaginarie, tutte con facce diverse e lo stesso nome. Ero forte e inconsistente, le mie idee erano tre o quattro in tutto, non sapevo niente di niente, vivevo di puro istinto. Probabilmente hanno ragione quelli che dicono che a quindici anni sei come un animale da addomesticare, eppure in certe circostanze sono stato felice. La prima volta che è successo, per esempio, me la ricordo. C'era una festa in campagna, in un prato, sotto un grappolo di luci colorate appese tra i rami degli alberi. Capitò che Pietro mi permise di andarci, nonostante fosse lontano e dovessero accompagnarmi in macchina certi amici più grandi. La cena cominciava alle otto, l'orario in cui di solito dovevo rincasare. Eravamo una decina, mi accolsero come avessi la loro età, mangiammo e poi ci mettemmo in circolo a fumare. Io guardavo soltanto, respiravo le sigarette degli altri. A un tratto verso mezzanotte mi colse una sensazione di felicità mai provata

L'inventario

Mettiamo che arrivi un'alluvione: le prime cose che metterei in salvo sarebbero le cose inutili. Vale a dire una trentina di romanzi, le sorprese degli ovetti Kinder, le foto al mare di ogni due di aprile, le canzoni di Roberto e le rondini che mi sono entrate dal camino. Al piano nobile della casa che non ho ancora comprato sistemerei tutto quel che è necessario a sopravvivere e che non posso usare come moneta di scambio: lì, in bella mostra, lo ammirerebbero gli amici e le donne che amo, quando passano a trovarmi colle galosce ai piedi. Io che sono innocente, io che adoro le persone e la gente mi spaventa, su quei ripiani sottrarrei al diluvio anche le nostalgie che ho raccontato, le parole con cui mi sono abbellito perché certe amiche mi corteggiassero, gli innamoramenti non dichiarati e tutti i baci che ho dato senza passione. Se mio padre ci fosse ancora, direbbe che per vivere mi basta quello, che non necessito di altro: acrobazie in borsa, speculazioni filosofiche, viaggi tr