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Visualizzazione dei post da dicembre, 2020

Vorrei

  Passo davanti alle vetrine dei negozi chiusi, è la vigilia di Natale, sono le dieci del mattino e per la strada non c'è nessuno. Le commesse hanno vestito a festa i manichini, con maglie rosse e sciarpe sgargianti, ma la festa non c'è. I saldi non sono ancora incominciati, la paura del contagio non è ancora finita, i locali sono bui tranne che per certe piccole lampade rotonde che gettano una luce giallastra sul pavimento, come un disco volante che stia per atterrare. Mi fermo a guardare, anche se non c'è niente da guardare e non posso comprare la giacca nuova che avevo in mente. Immagino la vita degli oggetti, là dentro, il parlottio tra le ciabatte e le moffole, ognuna pensa di essere più utile dell'altra perché i piedi si freddano più delle mani, e con le mani però si lavora, e dunque han più bisogno di tepore, e finiscono per bisticciare. Vorrebbero sgranchirsi le gambe, i pantaloni di velluto, ma poi perderebbero la riga e da soli non son capaci a rifarla. E le c

Tre canzoni

Nonostante io ascolti esclusivamente musica d'autore italiana - cosa per la quale certi amici spiritosi mi danno del fanatico - per paradosso trovo che le tre melodie più belle che siano mai state scritte - almeno a livello popolare - siano straniere. Sono canzoni che mi hanno addolcito il tempo in stagioni diverse della vita, costruite secondo sequenze armoniche di perfetta letizia, segno che chi le ha composte sapeva cosa stava facendo, e come si scrive la tenerezza. Mi fanno sovente da colonna sonora, in questa epoca matta di coprifuochi e allarmi, e rallentano la paura, combattono i presagi cattivi, m'accendono la voce e mi incoraggiano a cantare, in barba a chi ride a sentirmi. Ve le racconto, perché le ho un po' studiate, ne ho indagato la genesi, e così facendo me ne sono innamorato ancora di più. Allora, in ordine casuale. La prima di queste meraviglie è Hey Jude , dei Beatles. Ha un finale lunghissimo, sembra il coro di una festa, è stata scritta nel 1968, avevo un

Gesù bambino e Gramsci

  Secoli fa, all'alba degli anni Ottanta, il padre di un mio amico faceva il presepio in modo affatto originale. Si definiva comunista, e lo era, a osservarlo con attenzione: rigoroso e sobrio, spesso indignato per le porcherie del mondo, viveva solidale prima che diventasse un atteggiamento di cui vantarsi. Sotto al muschio metteva pagine dell'Unità e di Paese Sera, Per non sporcare il piano, diceva, ma in realtà lo sentimmo confessare a un vicino di casa che sperava che a quel modo Gesù bambino assorbisse un po' di sano egualitarismo. La moglie sbottava, a sentirlo parlare così: Ma come? Vuoi insegnare a dio il suo mestiere? e lui si inorgogliva, cacciava un urlo comico e con la voce baritonale giurava che sì, che tocca agli uomini indicare la strada ai santi, di tanto in tanto. Dentro la mangiatoia ficcava un piccolo monile a forma di stella con incisi la falce e il martello, staccato da una medaglietta che portava al collo. Era grosso quanto un bottone e a molti - paren