Avrei voluto che questo post fosse una festa, perché è il cinquecentesimo, perché ci sto pensando da due settimane, perché è un piccolo vanto esser arrivato così lontano. Avrei voluto ringraziare tutti gli amici che mi leggono, offrir loro una fetta virtuale di torta all'arancio, brindare davanti ai computer, guardarmi indietro e dire Cacchio, ma davvero le ho scritte io tutte queste avventuricole? Davvero questo blog è il mio confessionale laico da nove anni a questa parte? E invece. Invece arrivano notizie che sono come un bombardamento, e mi fanno sentire in colpa per tutta la vita non pòrta a chi di tanto in tanto me ne chiedeva un sorso, per i messaggi cui non ho risposto, per essere stato sordo alle implorazioni. Avevo i miei motivi, alcuni dei quali neanche troppo campati in aria, ma adesso non contano più, adesso mi dispiace: se quel che ho commesso fosse un reato mi costituirei. E dunque la festa è rimandata, e magari quando sarà la faremo live e verrà più divertente. Non voglio però rinviare un piccolo resoconto celebrativo, e la cosa non suoni presuntuosa. Cinquecento post, non so quante migliaia di parole, nove anni di terapia. Sto in analisi da nove anni e non ho sborsato un centesimo: poi non si dica che non sono un dritto. E non si dica nemmeno che ho una poetica smisurata: in teoria, sì, ho cantato un mare di cose, ma in pratica tre o quattro. Nel senso che ho guardato le stesse faccende da infinite prospettive e fino a consumarmi gli occhi, fino a sfondare l'orizzonte, a fare della stretta realtà un campo di stelle. Ho raccontato i vivi e i morti, le case dove non so più entrare, i ristoranti sulla spiaggia - l'invincibilità che danno agli avventori. E poi i viaggi nei posti già viaggiati - che sono l'epica della seconda volta - la luce della mia collina quando ceno in radura, gli orecchini comprati nelle bigiotterie greche, la tenerezza degli oggetti vissuti, e certo Amore osceno che se fossi un creativo proporrei come battesimo a un grande gelataio per uno stecco crema e limone. C'è uscito perfino un libro e qualche vanteria da tutto questo frugarmi, un botto di complimenti sperticati e un saldo totale pari a diciassette euro - una fortuna arrotondata per eccesso. Però sono contento, ma proprio assai, e come ha detto saggiamente una mia amica: vado avanti per la mia strada. È bella, luminosa e piega verso il mare. La voglia, la frenesia talora, è quella di vagabondare ancora: ad altri cinquecento chi dice di no? E infine ho un sogno: portare in un piccolo teatro, davanti a una cavea, ora che viene l'estate, queste esili creature memorate. Io credo che le mie parole rintoccherebbero argentine, tra i palchi e la notte affestata.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
Che dire, Francesco, complimenti te ne ho fatti, e tutti sinceri; leggerti è puro piacere, e il tuo modo di squadernarti mi incanta. È leggero e profondo,e mi da' un piacere puro.
RispondiEliminaGrazie Stefania, squadernarmi è divertente, anche se a volte un tantino doloroso. Felice di dare qualche piccola sensazione positiva tramite quello che provo a raccontare.
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