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Visualizzazione dei post da settembre, 2022

Velasquez

Tutti i creativi hanno un amico che si chiama Velasquez, e dunque ce l'ho pure io, che impalco invenzioni da quando a mia moglie venne il cancro. Da quella stagione in avanti, ogni tanto si presenta alla porta e mi propone di partire con lui. Una volta ha la giubba da capitano di vascello, un'altra la cotta di ferro e l'elmo, un'altra ancora il saio da mendicante e i sandali ai piedi. Suona il campanello con un codice di trilli strambo, tutto suo, una specie di drin dirindrin drindrì e io senza affacciarmi capisco chi è. S'annuncia squillante ma non reca buone notizie, né allegre; è al contrario una lusinga pericolosa, vorrebbe strapparmi via da tutto quello che è tetro e ripetuto e tentarmi d'avventura. Mi garantisce che vivrei benissimo solo della mia arte e quando io gli domando Che arte? lui risponde Su, non sottovalutarti, lascia la modestia a casa e partiamo!  Più di una volta sono stato sul punto di dargli retta, piantare tutto e seguirlo, come un apost

Sedicimila giorni

Mi sono fermato a quindici anni, non sono più cresciuto, è il 1982 da una vita. Mia madre torna ogni sera dalla tabaccheria alle sette meno un quarto, dice sempre che ha freddo, è sempre mercoledì, tutte le volte mi trova davanti alla tv a guardare Casa Keaton  e mi chiede se ho studiato greco. No, le dico di no, che me ne sono dimenticato, che appena finisce l'episodio lo faccio, e lei si inalbera. Tutte le sere lo stesso mercoledì del 1982, da quarant'anni: la medesima scena. Lei non lo sa, io sì, lei rifà da sedicimila giorni quella recita scordandola un attimo dopo, quando per il nervoso brucia la frittata di patate e mozzarella e mi costringe a spalancare tutte le finestre anche se è novembre. Ho comprato l'adolescenza, adesso è mia, devo pagarne il prezzo per il resto della vita: rivivere lo stesso giorno del 1982 per sempre. Conosco tutti i film che sono usciti da lì in avanti, conosco le canzoni, mi ricordo i libri, ma non posso parlarne con nessuno: vivo soltanto q

Le case infestate

Le case infestate esistono, eccome, ma non nel senso che crediamo tutti. O meglio, forse anche in quel senso lì, gotico, novembrino: mi piacerebbe. Mi piacerebbe star dentro a un romanzo di Henry James, esser risucchiato da una bocca che s'apre tra le pagine e dover fare i conti con la ragazza fantasma che appare e scompare sul lago. Ma oggi non vorrei parlare di spaventi, no. Oggi vorrei parlare di approvvigionamenti e vettovaglie. La cui pianificazione, mezzo secolo fa, cominciava adesso, all'inizio dell'autunno. Legna a ciocchi, candele, tovaglie rosse e roba da mangiare a volontà. Quella stagione era un'anteprima: l'anteprima della festa. Ora, lo so che infestare non ha un'etimologia allegra - infestus significa qualcosa come nocivo, pericoloso - ma a me in questo caso piace bellamente ignorare il prefisso e salvare solo l'anima della parola - festus - che naturalmente significa gioioso, felice. Le case infestate dunque, in barba alla grammatica, per

Aspettare stanca

Appena ieri ho incontrato all'anagrafe un uomo panciuto e bassino, col riporto riottoso e l'aria pudibonda: alcuni lo scansavano, gli dicevano di farsi da parte, che là in mezzo impicciava. Non ho capito cosa stesse a combinare: non era in fila, non pareva dover sbrigare una pratica. Quando sono uscito, risolta la mia, era ancora lì e gli impiegati mi han dato l'impressione di conoscerlo, epperò sbuffavano, e lui era come sulle spine: sembrava aspettare il permesso per fare qualcosa che gli scappava quasi dalle mani, tanta era la smania. Stamattina, per uno di quei giochi lievi e ostinati che ogni tanto il caso apparecchia alle nostre spalle, l'ho ritrovato in panetteria: non era lì a far la spesa, se ne stava in un angolo a fissare irrequieto la parete di fronte, incurante della gente che si accalcava, di uno che faceva il furbo e voleva passare avanti a tutti. Ho preso una frusta integrale e un pezzo di crostata e me ne sono andato per i fatti miei, a cercare un libro