Passa ai contenuti principali

Post

Visualizzazione dei post da gennaio, 2021

I miei incubi preferiti

Sin da quando ero ragazzino faccio un sogno ricorrente: entro in una stanza buia dove c'è un letto, ho sonno, vorrei sdraiarmi ma più mi avvicino più il letto si allontana, la stanza si dilata, e io non riesco a raggiungerlo. Ogni tanto quel sogno va via e dopo un anno o due si ripresenta all'uscio degli occhi, come un soldato che torni da una guerra, all'improvviso, e abbaia i cani nel cortile, accende le luci del portico e mi sveglia di soprassalto. Mi è risuccesso ieri, tanto che poi non c'è stato verso di riprender sonno e allora ho acceso la tv. Parlavano della crisi di governo e io ero tutto orecchi. Tutta quella gente che dice la sua, che litiga, strepita, che smentisce quello che ha affermato il giorno prima in un'altra trasmissione, che usa intercalari come Dopodiché , fa una pausa per dar l'impressione che stia ragionando sulle sorti del mondo e poi spara un'altra cazzata mi ha fatto sentire scollato. Come posso dir meglio? Diviso, interrotto, allo

Benefattori

Ogni sabato davanti alle finestre di casa mia fanno il mercatino. Merciai coi camioncini, venditori di frutta secca, produttori di ricotta, aziende agricole coi loro banchetti di leccornie, ambulanti che trafficano in scampoli e piumini a buon mercato, si radunano dalle sei del mattino, occupano i posti assegnati e apparecchiano la mercanzia. Io, che mi alzo presto anche nel fine settimana, metto sul fuoco il pentolino del latte e imburro le fette biscottate mentre loro sfacchinano ad abbassare pianali e a piazzarci sopra decine di pentole e mortai rumorosi, di zinco e alluminio. Ma è un rumore allegro, tutt'altro che fastidioso: è il suono della gente che lavora nonostante tutto , che ha famiglie da sfamare e mutui da spegnere. Si conoscono da anni, si salutano, si raccontano gli acciacchi, commentano il tempo - a volte lo maledicono, e se piove alzano teli di plastica tra i banchi e la tempesta. Se è inverno, qualcuno di loro calza il cappuccio e si rintana tra le vestaglie, che

Per amor del cielo: pensatemi!

Ci sono attimi,  minuti e ore in cui io non esisto, non sono mai nato, non cammino per il mondo. È il tempo della dimenticanza, del soprappensiero, quando scompaio dalla memoria di tutti, di chi sta in Australia e di chi sta a Genova - ammesso che chi sta in Australia e chi sta a Genova pensi a me, di tanto in tanto. Quando tutti smarriscono il tuo nome contemporaneamente, quando nessuno al mondo di quelli che conosci lascia che tra i suoi ragionamenti irrompa la tua faccia, la tua voce, e gli scombini i piani, gli rallenti il passo, gli incasini la strada sotto i piedi, ecco, è proprio allora, in quel preciso frangente, che smetti di esistere. Si esiste solo quando si è pensati, allora, quando qualcun altro ci proietta nella sua testa: in fantasia - lavorando su una speranza, un desiderio -  o recuperando un giorno antico vissuto assieme, a progettar sconcezze o a giurarsi fedeltà, ad arrampicarsi sui ciliegi in primavera o a far sega a scuola. Capita di rado che tutti i nostri amori

Le ore

Chissà se agli occhi eterni di dio il nostro tempo inciampato ha una qualche bellezza, e lo intenerisce, oppure se ogni volta che la paura ci storpia se ne sta lì impietrito come i capoccioni dell'isola di Pasqua, impermeabile a qualunque pietà. E chissà se tutte le ore spaventate - migliaia - a depositarle in una banca del paradiso varrebbero qualcosa più dei miserevoli interessi che ci danno le banche terrestri, avvoltoie e grame. Ne ho un sacco e una sporta, nella cassetta di sicurezza del cervello, di quelle ore smunte, e vorrei farle fruttare perché un qualche risarcimento me lo devono. Sono le ore in cui ho aspettato il responso di una risonanza, e ho tremato, non riconoscendo più la mia faccia allo specchio, e gli alberi fuori delle finestre avevano fauci spalancate. Le ore notturne in cui mia figlia non tornava in orario, in cui nessun amore dei tanti rispondeva Presente ; le ore diurne in cui non ho capito il prossimo, che era ostile e cattivo - e quando lo sono stato io s

La convivenza

La malinconia leggera e la tristezza molesta: cosa posso fare quando arrivano assieme, mi pigliano sottobraccio - una per parte - e mi accompagnano ovunque vada? Sono sorelle, nascono dalla schiuma dei giorni ma non sono malvage fino in fondo. Le incoraggia il freddo, il cielo spento, le macchine che passano sotto le mie finestre senza fermarsi, e chissà dove vanno, e da chi. Le infiamma, come un foruncolo stuzzicato, la memoria, che è un muro incrollabile: son caduti tutti da Berlino in poi. Lei no. Vorrei non avere memoria, vorrebbe dire non avere nostalgie, vivere sciocco e felice. E invece la memoria, che è il motore di ogni santa inquisizione dei ricordi - non conosco eretici più empi di loro - ha queste controindicazioni: può indurre intorpidimento, assuefazione, allucinazioni. Ho cercato di disinnescare la nostalgia, ne ho parlato agli amici ridicolizzandola, come quando si spettegola su qualcuno che non c'è. Mi sono liberato degli oggetti che potevano evocarla ma lei non ha

Cinquantaquattro

Quanto sono vecchio, per la miseria, quanti anni ho! Quando sono arrivati? Mentre dormivo? Se è così, viva l'insonnia. E come? Alla spicciolata o tutti assieme? Hanno assalito la fortezza della mia gioventù e han scalato le mura o mi hanno svegliato e convinto con l'inganno ad abbassare il ponte levatoio? Ad ogni modo sono tutti qui, li vedo e li conto, e ognuno ha un difetto, un arto spezzato, la schiena piagata, gli occhi ciechi. A ognuno rintocca una sfortuna e un disagio, una pestilenza e un castigo ma pure una sfacciata felicità: a lampi certo, a bagliori, mentre il dolore è denso è continuo, e sordo. Sono diventato grande, sono diventato adulto, sono diventato padre ansioso, passo il tempo a guardare dalla finestra la strada vuota, e ad aspettare. Aspettare: che gesto odioso. A furia di aspettare si arriva a un tempo dove non fai che addizionare le attese di tutta la vita senza che il risultato sia un premio: la somma della pazienza. Non ho trovato quasi mai regali alla f

L'ambulante

A Numana c'è una roccia a picco sul mare, mi ci sono arrampicato un'estate che le vie erano vuote, i negozi spenti, i turisti a letto. Io, che non avevo nessuna con cui andarci, girellavo insonne in cerca di un drink d'anice e sambuco: magari c'era un chiosco in mezzo ai giardini pubblici ancora aperto, e mi aspettava. La notte si scioglieva nell'acqua, che pareva densa e oleosa come petrolio. La luna, tristanzuola, cantava una canzone muta, vagamente nostalgica, e s'affacciava dallo sperone del Conero come una debuttante dal sipario di un teatro. Mi guardava, in attesa di una fotografia che la immortalasse. A un tratto, quando stavo per girare i tacchi, ecco che mi chiamano, mi volto, è un ambulante con un barroccino, e sul barroccino ha sistemato dei quadri. Si avvicina facendo gemere le ruote e mi si appiccica molesto e assieme cordiale, la sua compagnia mi secca e mi fa piacere. Dopo un po' che chiacchieriamo vorrei che se ne andasse e che restasse fino