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Visualizzazione dei post da febbraio, 2022

Innocenti

C'erano aureole odorose di timo attorno ai suoi capezzoli: scegliendone una a capriccio ci appoggiavo castamente la testa, esausto e leggero. Nel sonno il seno le si alzava e abbassava a ritmo regolare, appena percettibile, e io ero come su una barca rotonda che mi cullava materna in mezzo all'oceano. Quella stanza una volta era un oceano, una volta un dirigibile, un'altra volta l'ultima roccaforte dei ribelli. Mentre lei dormiva io pensavo alla fortuna di essere nato nella sua stessa epoca. Perfino nel mondo - in quei crepuscoli dipinti e a dispetto delle apparenze - intuivo una bellezza esasperata, e la bellezza mi suggeriva fantasie, estro, affabulazioni. Smania e paura, sorelle maligne, restavano fuori della porta e tutto era come dovrebbe essere: una felicità sottile e infrangibile. Di certo le parole - che solo più tardi, da narratore, avrei definito sacre - suonavano inessenziali, ospiti imbucati a una festa. Per questo le centellinavo, e lei con me, appena il so

I tramonti del Pincio

Il 19 luglio del 1986, cinque giorni dopo gli esami di Stato, orfano di responsabilità, con la testa vuota di progetti, me ne presi il treno e senza dir niente a nessuno sgattaiolai a Roma. Lì c'era l'università e volevo vedere da vicino com'era fatta, capire se ero in grado di camminarla fino in fondo, con tutte quelle pietre aguzze sul percorso. E poi volevo guardare la città per la prima volta da solo. L'estate romana di Renato Nicolini m'aveva smosso la fantasia, che è una cosa che ogni tanto va mescolata, sennò rimane torbida sul fondo della vita. Tutti quei concerti gratis, quegli audaci film all'aperto, il rispetto per le parole degli altri e il silenzio se non se ne hanno, la caciara contro l'apertura di un fast food a piazza Navona, l'effimero meglio dell'eterno perché si adegua alla brevità dell'uomo, la libertà da conquistare, i tramonti rossi del Pincio, la mia indole ancora inimmaginabile però già - forse - in embrione da narratore s

Piacevolissimo

Sono in viaggio un'altra volta, perché stare in casa non fa per me. Tra Marina Velca e Montalto mi viene fame, scendo a un ristorante di mare, nonostante il Tirreno a febbraio sia un ospite dai modi spicci. Per giunta decido di sedermi fuori, con l'ottimismo della volontà mai domo e la speranza d'una primavera in anticipo. Tra le tovaglie, sugli steccati che ci separano dalla spiaggia, vola una famiglia di passeri, si ferma a piluccare le briciole, con un frullo d'ali riparte tutta assieme, rotea sulle teste e tra le gambe di altri viaggiatori. Siam tutti lì a mangiare stretti nei soprabiti, i capelli sconvolti: c'è un vento freddo e muto che  arriva da tutte le parti, solleva i miei appunti, vorrebbe leggere in anticipo ciò che nemmeno io so bene cos'è. Quel che c'è intorno è così perfetto che è un peccato, uno sciupio, che un giorno nessuno lo vedrà più: che se ne fa la bellezza della bellezza se nessuno la guarda? Lo so, lo so: sono ragionamenti da narrat

Vedere le cose

Stavolta comincio dalla gelateria, a raccontare: due piaceri in uno. Non da una gelateria qualunque però, seppur ce n'è più di qualcuna, tutte pregevoli. Questa che dico si chiama Gambella, sta in via Mazzini - o in piazza Cavour, a seconda delle fantasie di Google maps - e ve la trovate davanti se girate a destra uscendo dal museo etrusco. C'è una terrazza, lì - fateci caso: ci state camminando sopra - dalla quale con gli occhi si arriva al mare, a quel Tirreno di alghe molli e acqua scura che innamorò tanti viaggiatori. Permettete che vi offra un cono gianduia e torroncino o una coppa di cremolato al caffè, e fatemi compagnia su una panchina - ce n'è una libera laggiù, andiamo, prima che ce la rubino. Siete comodi? Avete portato un giacchino nel caso si alzasse il vento? Non è ancora primavera, benché oggi un avamposto nei giardini se ne aggirasse, spaesato. Vi ho portati qui perché vi rendiate conto: questo è quello che io canto, quello che io scrivo. Ecco la sera celest

La dolcezza manifesta

Stamattina ho incontrato una ragazza che piangeva. Andavo in radio e lei a scuola - avrà avuto sedici anni e reggeva un vocabolario di greco. Le ho letto in faccia assieme al rossore una dignità, nella debolezza, che io alla sua età non ho mai mostrato. Non dico che non l'avessi ma non ero capace di esibirla, come se anziché un drappo fosse una mortificazione. Così ho ripensato a certe mie lacrime - quelle che ricordavo - e quei frangenti li ho trovati tutti un equivoco. Ho pianto per amore, gelosia, rabbia, disperazione - da ragazzo ordinario qual ero - e non ho mai trovato che il gesto mi consolasse. Al contrario, mi umiliava. Per qualunque motivo quella ragazza piangesse, lo faceva invece guardando in faccia la gente, combattendo l'inquisizione pettegola, la derisione, col diritto a una dolcezza manifesta, sentimento cui dovrebbero dedicare una giornata l'anno, come si fa col jazz o le api. Quell'incrociarsi per strada - una volta sbrigate le faccende di lavoro - m&#