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Visualizzazione dei post da maggio, 2023

Quelli che hanno stoffa e cuore

Capita ancora che qualche amico, in una terrazza a picco sul mare, o uno sconosciuto, a un festival estivo in un paese di tufo, mi chieda perché pur non godendo di grande notorietà continui a scrivere con tanta ostinazione. Badate, non è quasi mai una domanda maligna, una provocazione. Al contrario è una specie di elogio tutto sghembo: per le mie narrazioni, che i più giudicano saporite, e per me medesimo, che in quelle narrazioni dimostrerei - a giudizio dei miei cinquanta lettori - una certa faticata coerenza. Tutto quello che ho scritto in questi anni - i quattro romanzi, i tre libri di racconti, il manuale di scrittura, i seicento e passa post di questo blog - sembra a chi mi legge con attenzione legato assieme dalla stessa poetica, a cui, pur stenta e tribolata, resto incrollabilmente fedele, come a una donna dagli occhi accesi un uomo innamorato. Ecco perché rispondo sempre che scriverò finché farlo mi darà sollievo, mi carezzerà come fece il vento dell'Egeo quella volta che

Tre circostanze fortunate

Tu adesso chiudi gli occhi che io ti do un bacio. Chiudi gli occhi perché il bacio non devi vederlo arrivare, devi fare in modo che l'attesa sia una fitta dentro al petto, che la mia bocca s'aggrappi alla tua quando non ci contavi più, quando pensi che me ne sono andato e t'ho lasciata là, ingannata e cieca. Mentre aspetti il tempo ti sembrerà differente - il tempo dell'attesa di un bacio sfugge alla gabbia consueta - e se alla fine ti chiedessero di contarlo dovresti fare come i bambini, con le dita, e sarebbe lo stesso un inganno. Non è una questione di età, io ho la mia e tu la tua, non siamo alle prime armi. Ma anche la tenerezza - perché è di questo che stiamo parlando - muove con un tempo tutto strano, asincrono, ed è la stessa di quando avevamo vent'anni - tu più di recente - rinvigorita però dall'autostima, che alla giovinezza non si addice. Poi vorrei tenerti addosso, come in quella canzone di Paoli, stringerti alla mia camicia bianca e dirti che probab

Camera oscura

C'è una foto del 1838 - una delle prime della storia - che ritrae un uomo intento a farsi pulire le scarpe in un boulevard parigino. La strada appare deserta, sembra che in giro ci siano soltanto lui e il lustrascarpe: nei paraggi solo qualche albero, le tende abbassate sui negozi, i comignoli, le case popolari, e alle case finestre misere, dietro le quali si spera non abiti più nessuno. Nulla del formicaio della via - i ragazzi all'uscita della scuola, le donne di servizio intente a farsi corteggiare dai libertini, i netturbini, i tramvieri, i poliziotti - è rimasto impresso sulla lastra: si muoveva troppo veloce per essere fermato in dieci minuti di posa. Due secoli fa per scattare una foto ci voleva il tempo che ci voleva e quella immagine racconta la pazienza che avevano i nostri bisnonni. Che dopo lo scatto si chiudevano dentro la camera oscura e attaccavano con le mollette i negativi a un filo, sperando che quel che avrebbero visto sarebbe stato quello per cui avevano spe

Lettera ad un ragazzo di questo tempo

Caro Giovanni, scusa se ti rispondo solo ora. Ho ricevuto la tua mail già da una settimana ma sono stati giorni pieni di cose, avvenimenti che ti racconterò un'altra volta, se vorrai. Mi preme adesso suggerirti una via d'uscita alle tue suppliche. Per cominciare dovresti smetterla di compiangerti. O perlomeno dovresti smetterla di compiangerti così tanto, perché la disistima toglie lucidità. E poi la mattina potresti alzarti un po' prima, lavarti scrupolosamente, infilare una camicia pulita e andare a comprare il giornale. Sì lo so che tu non leggi neanche le notizie in rete - di politica, di economia, di cultura, non te ne importa niente - ma comprare il giornale è un atto gentile. Parlo della gentilezza verso te stesso, di quel tempo che serve a imparare le facce del mondo. Già che ci sei passa in pasticceria, prendi un cannolo di ricotta e portalo a tua madre: se è una cosa che non hai mai fatto le parrà di avere un figlio che è impazzito, oppure un figlio nuovo di zecca

Contagio

Da un po' di tempo la mattina ho preso l'abitudine di parcheggiare vicino allo stadio. Da lì, per arrivare a piedi al lavoro mi ci vuole un quarto d'ora buono, che sommato al quarto d'ora per tornare indietro fa la mezz'ora di moto giornaliero che i medici raccomandano ai giovanotti attempati come me. La seccatura è che devo attraversare la strada in più punti e, pur facendolo scrupolosamente sulle strisce pedonali, ho già rischiato due o tre volte di essere travolto da chi guida in città come sull'autostrada del sole. Il vantaggio, oltre al movimento, è che guardo la città medesima da altre prospettive, scopro scorci inediti e sfilo nostalgico davanti al liceo che da ragazzo ho abitato irrequieto. Lo sono ancora - irrequieto, non ragazzo - ma adesso ho il buon senso di accorgermene e così posso scenderci a patti, con quella smania di far cento cose tutte assieme. Molto è cambiato, là attorno, parecchie vie si sono insuperbite come la gente che ci abita, forse h