A quindici anni avevo una fidanzata al giorno, tutte immaginarie, tutte con facce diverse e lo stesso nome. Ero forte e inconsistente, le mie idee erano tre o quattro in tutto, non sapevo niente di niente, vivevo di puro istinto. Probabilmente hanno ragione quelli che dicono che a quindici anni sei come un animale da addomesticare, eppure in certe circostanze sono stato felice. La prima volta che è successo, per esempio, me la ricordo. C'era una festa in campagna, in un prato, sotto un grappolo di luci colorate appese tra i rami degli alberi. Capitò che Pietro mi permise di andarci, nonostante fosse lontano e dovessero accompagnarmi in macchina certi amici più grandi. La cena cominciava alle otto, l'orario in cui di solito dovevo rincasare. Eravamo una decina, mi accolsero come avessi la loro età, mangiammo e poi ci mettemmo in circolo a fumare. Io guardavo soltanto, respiravo le sigarette degli altri. A un tratto verso mezzanotte mi colse una sensazione di felicità mai provata
Mettiamo che arrivi un'alluvione: le prime cose che metterei in salvo sarebbero le cose inutili. Vale a dire una trentina di romanzi, le sorprese degli ovetti Kinder, le foto al mare di ogni due di aprile, le canzoni di Roberto e le rondini che mi sono entrate dal camino. Al piano nobile della casa che non ho ancora comprato sistemerei tutto quel che è necessario a sopravvivere e che non posso usare come moneta di scambio: lì, in bella mostra, lo ammirerebbero gli amici e le donne che amo, quando passano a trovarmi colle galosce ai piedi. Io che sono innocente, io che adoro le persone e la gente mi spaventa, su quei ripiani sottrarrei al diluvio anche le nostalgie che ho raccontato, le parole con cui mi sono abbellito perché certe amiche mi corteggiassero, gli innamoramenti non dichiarati e tutti i baci che ho dato senza passione. Se mio padre ci fosse ancora, direbbe che per vivere mi basta quello, che non necessito di altro: acrobazie in borsa, speculazioni filosofiche, viaggi tr