Irene mi disse se le prestavo la macchina, andava e tornava, ma non specificò dove. Avevamo ventidue anni, lei era rigorosa, fatta di quella bellezza non comune che impressiona gli uomini di gusti difficili, non svenevole, una ragazza dagli zigomi forti, a parer mio strepitosa. Ma non era una che potesse piacere a tutti. Le risposi che l'aspettavo sotto casa, c'era un giardino, una panchina, dovevo preparare Storia greca, ne avrei approfittato per studiare un po'. Quando arrivò si appoggiò col suo sedere tornito alla staccionata, mi restituì le chiavi e disse Grazie. Io le dissi Ti devo fare una proposta. Non è un po' troppo per avermi prestato per mezz'ora la macchina? - chiese dispettosa. Scema, non è quello. Ma in fondo ci sei andata vicino. Le rivelai che Ulisse era nei guai, guai di salute, ci rimase male. Andavamo in facoltà insieme, qualche volta, noi tre e altri che si aggregavano se gli girava. Il suo sangue ha qualcosa che non va, deve fare un trapianto di...
Forse ha ragione Alessandro Baricco quando dice che le cose passate vanno lasciate andare, senza mettersi a rincorrerle, senza trattenerle a tutti i costi, ma se facessimo davvero così, cosa rimarrebbe da scrivere? I compagni di scuola dell'ottantatré, gli occhiali da sole smarriti a Selinunte, gli amori creduti eterni, il sesso allegro con le amiche occasionali, non sono tutti pretesti narrativi di prim'ordine? Se li lasciassimo perdere, la bocca degli scrittori diventerebbe muta, e io non riuscirei a raccontarvi più niente. Io credo che scrivere - o raccontare a voce, che sono sostanzialmente gesti fratelli anche se uno è premeditato e l'altro innocente - sia la superbia più efferata: ti costringe a bagnare nel mito ogni stupido giorno. Se permettessi alle cose di scappare non ne avrei nostalgia, le scorderei, e la nostalgia è quella fune sottile che tiene insieme ieri e oggi, il momento in cui le cose accadono e l'altro, il momento in cui insistono per diventare paro...