Passa ai contenuti principali

Post

Post in evidenza

Il sangue di Ulisse

Irene mi disse se le prestavo la macchina, andava e tornava, ma non specificò dove. Avevamo ventidue anni, lei era rigorosa, fatta di quella bellezza non comune che impressiona gli uomini di gusti difficili, non svenevole, una ragazza dagli zigomi forti, a parer mio strepitosa. Ma non era una che potesse piacere a tutti. Le risposi che l'aspettavo sotto casa, c'era un giardino, una panchina, dovevo preparare Storia greca, ne avrei approfittato per studiare un po'. Quando arrivò si appoggiò col suo sedere tornito alla staccionata, mi restituì le chiavi e disse Grazie. Io le dissi Ti devo fare una proposta. Non è un po' troppo per avermi prestato per mezz'ora la macchina? - chiese dispettosa. Scema, non è quello. Ma in fondo ci sei andata vicino. Le rivelai che Ulisse era nei guai, guai di salute, ci rimase male. Andavamo in facoltà insieme, qualche volta, noi tre e altri che si aggregavano se gli girava. Il suo sangue ha qualcosa che non va, deve fare un trapianto di...
Post recenti

Lasciar andare

Forse ha ragione Alessandro Baricco quando dice che le cose passate vanno lasciate andare, senza mettersi a rincorrerle, senza trattenerle a tutti i costi, ma se facessimo davvero così, cosa rimarrebbe da scrivere? I compagni di scuola dell'ottantatré, gli occhiali da sole smarriti a Selinunte, gli amori creduti eterni, il sesso allegro con le amiche occasionali, non sono tutti pretesti narrativi di prim'ordine? Se li lasciassimo perdere, la bocca degli scrittori diventerebbe muta, e io non riuscirei a raccontarvi più niente. Io credo che scrivere - o raccontare a voce, che sono sostanzialmente gesti fratelli anche se uno è premeditato e l'altro innocente - sia la superbia più efferata: ti costringe a bagnare nel mito ogni stupido giorno. Se permettessi alle cose di scappare non ne avrei nostalgia, le scorderei, e la nostalgia è quella fune sottile che tiene insieme ieri e oggi, il momento in cui le cose accadono e l'altro, il momento in cui insistono per diventare paro...

La ragazza portoghese

Qualsiasi città graziosa, nella bufera e nel vento, come un palco di teatro dal fondale livido, diventa per chi ha l'indole di un Gozzano occasione narrativa irripetibile. In quelle circostanze, sfrontato, cammino senza ombrello e galosce perché Alda Merini una volta disse che gli oggetti utili le davano noia, e fingendomi poeta anch'io cerco e rintraccio la coda di una storia, o il suo incominciare, e poi ricostruisco a mia discrezione le parti mancanti. Tredici anni fa accadde a Siracusa, che uscissi dalla stanza d'albergo e mi mettessi a girovagare  in t-shirt e ciabattine dopo un temporale. Avevamo cenato sotto il patio di un ristorante di Ortigia, con una specie di mesta allegria che presagiva la fine ma che non ci impedì di essere felici, per quell'istante eterno. Poi Alessandra si addormentò, stanca di terapie, e a me venne voglia di comprarle un regalo: un paio di orecchini, o un bracciale a forma di onda. Nella via che porta alla Spiaggia di Cala Rossa avevo vi...

Dorothy

La dolcezza delle sere settembrine, a mezzanotte, sulla spiaggia  di Favignana, tra le onde luminose che ci pungevano i piedi: non credo di aver vissuto mai una felicità paragonabile a quella. In cento altre occasioni sono stato felice ma la profondità del sentimento alcune volte era meno un abisso, e invece nelle Egadi non se ne vedeva il fondo. Lì dimenticai gli acciacchi, la mia ipocondria, scordai che siamo preda del mercato, che qualcuno talora si fa beffe di noi e giurai solennemente che la vita mi piaceva. Lo giurai a una ragazza dagli occhi tristi e la bellezza manifesta, che giocava la sua indipendenza dentro una vacanza solitaria, in barba all'ex marito e ai suoceri fascisti. Si chiamava Dorothy, teneva coperta gran parte del corpo con camiciole e gonne a campana, aveva denti candidi e si immergeva senza fare una piega in certi romanzi di complessità fatale che io neanche ho mai sfiorato. Io ero con un paio di amici che la notte la passavano a dormire e mi ritrovai, inson...

Stagioni

Mi succede da anni, a questo punto della vita: a primavera inoltrata mi sento perduto. Finiscono tutte le imprese cominciate un autunno fa e solo la promessa che ne verranno altre, ad ottobre, mi tira fuori dai guai. Guai di malinconia, beninteso, di umore strambo, niente che non sia curabile con un po' di mare, di canzoni come si deve e di scritture possenti, ma pur sempre contrattempi di cui farei volentieri a meno. Giugno è un mese complicato, chiude la scuola, devo capire se ho meritato la stima ricevuta e scendere a patti con il sospetto che le mattine in classe, le narrazioni dense e leggere di quegli scrittori per cui ho una devozione infinita, non abbiano avuto poi un gran senso, né gettato semi nelle teste dei miei allievi. E termina un'altra stagione radiofonica, perché il capodanno degli speaker è adesso, il che comporta uno strascico di nostalgia invincibile se solo commetto l'errore di ripensare alle centinaia di ore in diretta, agli ospiti simpatici e antipati...

Quei due

Si alzavano e cominciavano subito a litigare. Appena alzati, non esagero, neanche il tempo di far colazione. Si alzavano e cominciavano a rinfacciarsi a chiare note le rispettive mancanze, li ho sentiti tutte le mattine per quattro anni, il tempo che sono stato loro vicino di pianerottolo. Erano moglie e marito, sui cinquanta, benestanti, colti, senza figli, lei insegnante di filosofia, lui biologo. Litigavano con un apprezzabile senso della misura, non urlavano quasi mai e nello stesso tempo però non abbassavano di certo la voce: erano bravi a stare dentro al campo e a non superare le righe ma là in mezzo se le suonavano di santa ragione. Discutevano di cose importanti: la costruzione del futuro, il rispetto per l'intelligenza altrui, la pianificazione dei rapporti sessuali, e di fratelli e cognati che da una parte e dall'altra, per motivi che non approfondivano mai del tutto, li disprezzavano. Avevano cura delle parole, non le usavano a sproposito, erano battibecchi linguisti...

Quando le suore parlano di uomini

Qualche volta da ragazzini, tornando dal campo di pallone, le incontravamo che scendevano a stormo verso san Girolamo, proprio come le rondini di quella magnifica canzone di Castelnuovo che ancora non era stata scritta. Noi sudati, bellicosi, pieni di ormoni in circolo; loro pudiche, prive a guardarle di qualsiasi istinto animale, mormoravano parole impercettibili, preghiere segrete e flebili canti di devozione. Eravamo l'inferno e il paradiso, per quanto potessero essere inferno dei quattordicenni che sì, avevano in testa una cosa sola (quella) ma facevano più che altro tenerezza, con tutto quell'armamentario di volgarità. Loro, le suore, non erano mai meno di sette o otto, mai più di dieci o dodici: era come se uscissero dal convento in numero sufficiente a darsi man forte ma pure tale da non apparire sediziose. Un giorno mollai i ragazzi della via Pal e con la maglietta fradicia mi misi a seguirle. Volevo capire che vita facevano, ascoltare i loro discorsi, rubare la loro i...