Passa ai contenuti principali

Post

Visualizzazione dei post da gennaio, 2023

Se non dovessi tornare

L'estate scorsa sul lungomare di Livorno ho visto un uomo che prendeva a calci un cane. L'ho visto da lontano, mi sono avvicinato e non ho avuto il coraggio di dirgli niente. Invece, sono sceso in spiaggia sotto il sole che urlava, dopo aver fotografato la bandiera al vento di Giorgio Caproni e tentato di recuperare dalla memoria uno qualsiasi dei suoi versi, per scacciare la vergogna: Se non dovessi tornare/ sappiate che non sono mai partito...  E poi? E poi come faceva? Allo stabilimento ho noleggiato un ombrellone e una sdraio, avevo appresso un vecchio libro di Sepulveda e per quanto fosse leggero non capivo quel che voleva raccontarmi: la testa era altrove, alla violenza vana, alla mia pusillanimità. In mezz'ora arrivò la ragazza che aspettavo, andammo a cena: un ristorante tra le dune, un piatto di gamberi, una bottiglia di vin dolce; flirtammo a tavola e poi al porticciolo, con la luna che sopra le onde sembrava quella dei film di Melies. La mattina successiva, in al

Mangiare insetti

Stanotte, camminando per New York, mi è parso di vedere Tony Manero che ballava sopra il ponte di Verrazzano, incurante degli anni e dei chili presi, leggero come la libellula che ricordo e ugualmente innocente. C'era la luna, e c'era quel manto chiaro che spande quando il mondo è in pace e quando viaggiare - come ho fatto io stanotte - non presuppone spostarsi da casa, fare i bagagli, prenotare il volo, mangiare insetti, ma soltanto accompagnare Stephanie a casa dopo le prove. Dont' walk , diceva il semaforo sulla settantasettesima, e allora mi son fermato e ho guardato attorno: la città era il palcoscenico del paradiso, coi suoi palchi, la platea stupefatta, il golfo mistico dove i musicanti di strada suonano Charlie Parker per mezzo dollaro l'ora. Un tramonto di un giorno qualsiasi del 1977 nella grande mela sarebbe in effetti uno dei miei cinque o sei paradisi su misura, purché dilatato oltre ogni tempo ragionevolmente umano, così da farcirlo di tutto quello che ho

Pose

"Il letto di uno che sta per morire deve essere rigovernato con precisione aritmetica. La bardatura dev'essere di un colore che consoli - azzurro per esempio, o grigio chiaro, in modo da ricordare il cielo in primavera; la riversina non può piegarsi su se stessa per più di quindici centimetri o sembrerà sproporzionata rispetto alla parte del lenzuolo che resta distesa, e il cuscino non sia troppo elastico, così da sostenere la testa del malcapitato evitando che sprofondi. I muscoli del collo di un moribondo, infatti, sono laschi, e il corpo assumerebbe una postura goffa, scomposta, che renderebbe parodica la morte. La morte non deve mai sembrare qualcosa di differente da quello che è: un'ingiuria cui bisogna andare incontro compostamente". Tutte queste eccentricità e altre ancora mi raccontava stamattina Santoro, amico d'infanzia perduto per un tempo che credevo definitivo e poi ritrovato in un incastro di coincidenze stupefacenti, che tuttavia vi racconterò un

Vestire a festa

Una sera ogni trecento - e senza preavviso - a mio padre saltava di chiuder prima la tabaccheria e in barba ai ritardatari, che restavano senza fumo per il dopocena, prendeva ad arrampicarsi per via della Pigna, in cerca di ossigeno. Se mi guardava e diceva Andiamo era segno che mi voleva con lui; se al contrario calcava il cappello e scompariva all'improvviso voleva dire che ero io a dover calare la serranda, e che ci saremmo rivisti a casa, non appena gli fosse passata quella smania di libertà. Quando mi chiedeva di seguirlo era perché gli andava di parlare, raccontare. Una volta abbiam preso per via Franceschi Ferrucci e là nei pressi c'era un appartamento dove nel sessantuno facevano le prove del Candelaio, lui e la sua combriccola di amici artisti, e poi Giuseppe Manini li portò a debuttare al Teatro delle Muse, a Roma, e Pietro disse che era la rivincita di Giordano Bruno contro quelli che lo avevano bruciato vivo. Un'altra volta, invasi dalla primavera, scendemmo fi

Addio alle armi

Eccoli di nuovo, quei giorni in plotone che vorrei congedare per sempre dalla mia vita, cui strapperei dalle spalline i gradi per poi deferirli alla corte marziale. Arrivano in quattro o cinque al modo di soldati ubriachi, sfilano uno dopo l'altro barcollanti, insubordinati come quelli di Mash , e mi tentano al nulla, mi mostrano l'insensatezza di quello che faccio e provano a convincermi a mollare ogni impresa. Succede che siano incoraggiati dalla fatica disumana che talora sostengo per un risultato invisibile, dal tempo dedicato a un sogno che poi nasce storpio, dal sospetto di ricevere meno di quel che mi spetterebbe, in questo mestiere d'artista senza padri e padrini che pur non rinnego di aver scelto. Mi chiedo certe volte se non abbiano ragione da vendere, col loro pacifismo esibito. Se davvero, deponendo le armi, non troverei quella felicità che cerco combattendo, e che le mie parole conquistano spesso ma per un solo istante: poi sfugge tra gli occhielli delle a e d

Hikikomori

Il mio balcone dà sugli alberi: una palizzata che mi scherma dalla strada, filtra la luce e incoraggia la malinconia. Qualche volta ci esco a fumare - le sere in cui le stagioni cambiano, e il primo rinfresco lenisce l'estate o una repentina primavera spaventa febbraio - ma la sigaretta non la respiro, è più che altro un gesto, una posa che mi aiuta a districare i grovigli e a guardare il cielo con più assegnamento. Il fumo schiara la notte e quando è in alto sembra che ravvivi le stelle, come uno che soffi sulle braci: così ho visto fare ai contadini nelle domeniche immaginate dell'infanzia. Immagino ancora oggi, non ho perso il vizio, e temo che tutto ciò che vedo sia appunto una fantasia, l'affabulazione di un uomo che non ha capito com'è che va il mondo, che è figlio del caso. Mi hanno spiegato che lassù, verso una qualche direzione, c'è una strada che non finisce mai, che passa attraverso il tempo e i buchi neri, e che a guardare la terra da un miliardo di anni