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Visualizzazione dei post da novembre, 2023

Una canzone, due canzoni, tre

Tra le attese più lunghe dell'infanzia c'è quella del Natale, giorno in cui si festeggia quel che è accaduto in tutt'altro periodo dell'anno e che dovremmo far accadere da oggi in poi per tutti i giorni che ci restano da vivere. Ho raccontato quel sentimento quand'era incollato ai miei sette anni e poi che ne ho avuti quattordici già s'era trasformato in qualcosa di differente. Solo la durata era la stessa: dalla fine di novembre mi assaliva un languore la cui natura non riuscivo a far capire a nessuno, e che ai tempi del ginnasio addolciva il mio umore ispido insaporendolo di speranza. Che quella speranza poi si sia a sua volta trasformata in una vita beffarda, eccentrica e raccontata per legittima difesa - perché condividerla su altre spalle mi ha permesso di alleggerirne il peso - è solo un altro scherzo del destino: io volevo un'esistenza anonima, impiegatizia, in cui tutto quello che c'era mi sembrasse bastevole. E invece fu proprio all'altezza

L'osservatore Romano

Naturalmente non si chiama Romano ma la tentazione di giocare col titolo era troppo forte e così ho ceduto. Si chiama in un altro modo, che non dirò, ma se vi va potete chiamarlo Numa, o Galeazzo, o come diavolo preferite. Quel che mi preme raccontare è che è un camminatore. Un grande camminatore, un camminatore instancabile, e un uomo più vecchio di me. Cammina sempre con la stessa filosofica cadenza di chi non ha fretta e non ha ambizioni da corteggiare perché sa che le ambizioni fan venire la pressione alta. Mette un piede davanti all'altro guardando l'asfalto: se c'è un craterino, una buca, un avvallamento, ci passa coscienziosamente attorno, e una volta che li ha superati si gira su se stesso, osserva il pericolo scampato, incassa la testa nelle spalle e riprende il viaggio. Veste giacche di poco pregio cui mancano spesso dei bottoni, e ora che fa freddo non può allacciarle. Così alza il bavero e corregge il caffè, come in quella canzone di De Gregori, ma quando nessun

Auspicabili calamità

La prima volta che dormimmo in macchina, dormimmo in macchina dopo un terremoto. Io avevo sette anni o al massimo otto: mi ricordo che m'allungai sul sedile posteriore della Dyane senza dover piegare i ginocchi mentre Clara dormì seduta davanti, col fazzolettone in testa per via delle zanzare. Era la fine dell'estate, e Gastone pensò bene di sistemarsi dietro la macchina, sdraiato per terra sopra una copertaccia, e mica chiuse occhio, ma gli piaceva quel fatto insolito perché - a patto che non si rompesse il freno a mano - avrebbe poi potuto raccontarlo ai suoi amici musicisti, a cui piacevano solo storie di eccentricità. Non lo so se la parte della memoria in cui vedo la macchina parcheggiata in salita è una mia rielaborazione inconsapevole, ma giurerei che mio padre e mio zio l'avevano messa a quel modo, vai a sapere perché: forse una leggerezza giovanile. Stavamo in un posto che Gastone aveva battezzato Il Podericchio -  un fazzoletto di terra tutto gobbe e bitorzoli del

Alcune ragioni contrarie all'infelicità

Perché sei infelice? Perché non riesci a starci dentro, alla felicità, per più di dieci minuti? Io credo che dovresti ragionare su queste domande, così intime e così terribili. Se vuoi ti do una mano, molti dicono che ci somigliamo, sarà più facile per me che per un altro suggerirti una via d'uscita. Sei infelice nonostante tu faccia tutti i giorni quello che ti piace. Pensa se non fosse successo, che avessi quei piccoli talenti che alcuni ti riconoscono: parlare in radio con disinvoltura, scrivere con leggiadria, tenere avvinti venticinque ragazzi con un poeta che per la prima volta non sembra loro inutile. Pensa se non avessi quei piccoli talenti ma fossi divorato dal desiderio di averli, e ogni tua invenzione passasse inosservata, o peggio fosse evitata come la peste. Questa attenzione che ti dedicano, non è già motivo di felicità? Le parole - lusinghiere -  che ti regalano a corredo delle tue, non sono una buona ragione per essere felici? E quando hai viaggiato per l'Italia

Resto qua

Fosse per me saluterei tutti con un inchino e me ne andrei in collina. Stasera stessa, dico, tra un po': il tempo di fare una spesa grossa e riempire la macchina di libri tachipirine e film da vedere di notte. Lassù, tra le brume novembrine, non mi farebbe schifo avere in tasca una scacciacani, per far paura ai cinghiali quando grufolano nella radura senza sparargli sul serio. Non mi servirebbe molto altro, a patto che un'amica che so io mi venisse a trovare di tanto in tanto - secondo i suoi capricci, beninteso, non certo i miei, la qual cosa sarebbe perfino più divertente perché imprevedibile. Su quella gobba dell'Appennino, nell'aria celeste che non sa di fumi industriali, dove i sentieri francescani tagliano le piste del turismo slow e ne vien fuori un garbuglio che pure ha un suo senso, ci ho aspettato mia figlia che tornava dalla città, le sere che eravamo sfollati non per una guerra ma per una vita che stava cambiando, e dovemmo tutti isolarci un momento per capi

Succede di notte

Il mistero è svelto ma certe volte lo frego, e sulla sua faccia imperturbabile si apre uno squarcio, filtra la luce, per un attimo riesco a sbirciare dall'altra parte. Quello che vedo è sempre la stessa cosa: un po' spaventa e un po' consola. Succede di notte, le gran volte, se un rumore mi strappa dal sonno - l'aria che scoppia in una bottiglia, un gatto che baruffa con la sua ombra - e lui non fa in tempo a nascondersi. Sta laggiù, dove la prua del letto fende l'oscurità e attraversando il mare agitato dei sogni orienta al mattino. Ha l'aspetto di un cappotto appeso a un gancio, e se volessi essere meno inquietante direi che somiglia a Macchia Nera, l'arcinemico di Topolino. Però lo vedo per un istante, lo intuisco appena, tanto che non saprei dire se appartiente all'incubo che ho appena lasciato o alla realtà a cui son riemerso. Una notte o due, anche di recente, sembrava avere mani luminose; un'altra volta occhi come faville; e insomma c'è se