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Visualizzazione dei post da settembre, 2021

Tuttavia

Ho cominciato a invidiare i miei nonni, persone dalla vita piana, che ero già adulto. Prima no, prima ero certo che si fossero annoiati a morte a fare per ottant'anni tutti i giorni lo stesso numero di passi dentro lo stesso tragitto - casa, lavoro, bottega di alimentari - e a pronunciare le medesime centocinquanta parole al cospetto di circostanze sempre uguali. Poi ho capito che quel sistema ripetuto dava loro una parvenza di eternità, perché a replicare all'infinito gli stessi comportamenti ci si illude che infiniti lo saranno sul serio, e di ingannare la morte. Neanche tutta quella accortezza di linguaggio era per malavoglia, o ignoranza, ma perché - da signori avveduti quali erano - sapevano che di parole davvero necessarie ne esistono poche e che la gran parte di esse sono inadatte a vestire degnamente i sentimenti. Dunque, io ho avuto voglia di una vita mossa finché non ha preso a muoversi schizofrenicamente, ed è stato come quei desideri che quando si realizzano diventa

Il popolo dell'autunno

Ci sono uomini che somigliano alle stagioni e ogni tre mesi cambiano carattere. Sono uomini dalla natura esposta come i banchi al mercato, indecisi tra il piovere e il tirar di vento, tra l'esser canicola e il diventar tempesta. La loro indole è dunque lunatica e vanno presi per il verso giusto, pretendono che li si capisca a ogni mutazione, sono capricciosi e spesso cercano una donna che abbia le medesime ubbìe, così da metter su famiglia in un manicomio. Ne ho conosciuti un paio, di personaggi del genere: eravamo amici e forse lo siamo ancora ma il guaio e che non ce lo rinfacciamo da tanto e può anche darsi che l'amicizia non rinfacciata a un certo punto muoia. Io per conto mio spero invece d'essere d'un unico colore, che poi è un mucchio, perché ho una stagione sola a cui affamigliarmi ma è variopinta,  tanto che se un pittore mi volesse ritrarre verrebbe un acquerello col rosso bruciato delle foglie d'ottobre, il verdolino dei parchi di città, il bianco sporco

Forte

La città vive di brume, fumi densi e catrame. Eppure oggi è dolce camminarla, eppure è allegro. Taglio per via Lungonera, brucio la passerella sul fiume, sbuco davanti al tribunale e lì è già centro, già vedo gente che s'aggruma. Avvocati che fanno l'aperitivo, innamorati che non si decidono a dichiararsi, borseggiatori, donne eleganti che a un tavolino leggono Stendhal, vecchi pieni di bellezza e vecchi pieni di rimpianti: lo capisci da come si muovono, da come dondolano la testa. Sembrano - i rassegnati - certi elefanti tristi dei documentari; e gli altri invece - i combattivi - paiono usciti dai film americani di quando si credeva alla speranza, quelli coi fondali di cartapesta, quelli di Frank Capra. Più in là, dove le vetrine scintillano e il nuovo gestore della libreria del corso è un incallito scorbutico, la cenere delle fabbriche si posa sui motorini in sosta, le scorie entrano nelle narici, l'odore di bruciato, di metallo fuso, è insopprimibile. Mi sta

La pace armata

  Ieri ero a Cortona, a registrare un programma per la radio sulla mostra di Luca Signorelli al museo diocesano, e a un certo punto mi sono perso. Volontariamente, dico: ho lasciato che i piedi andassero per conto loro, e gli occhi si posassero a volontà sui bazar ricavati negli antri di pietra, colla merce esposta fin per strada, in festosa tentazione di sperpero. Borse di cuoio, stampe della città, portachiavi con l'effige del cinghiale - che qui pare sia una bestiola portafortuna: - avrei comprato di tutto, senza pentirmene. Alle due passate, in trattoria, ho sfogliato il giornale saltando come in quella canzone di Concato le notizie che fanno male, e tutti gli articoli compiacenti con gli uomini di potere. Gli uomini di potere in posti così graziosi non dovrebbero farceli entrare, nemmeno sulla stampa: sono fuori contesto. Il proprietario del ristoro, un signore sui settanta, i capelli bianchi fermati all'indietro con la brillantina, porgendomi un piatto di verdure all'

I nomi

Tra qualche settimana copriranno i campi da tennis con il pallone, per giocarci d'inverno. Da qui a un mese la notte gelerà e mi toccherà parcheggiare sotto le piante, per evitare che il vetro si ghiacci. Se mi volto vedo l'estate che è già passata, con la paura della colonscopia, la costipatissima costiera amalfitana, le temperature feroci, le formiche nella dispensa, la riscoperta di Branduardi, il climatizzatore che funziona solo se per azionarlo mi arrampico su una scala, perché ho perso il telecomando. Appena ieri eravamo a una festa e oggi il prato è deserto, hanno accatastato i tavoli in un cortile, li hanno incatenati e han messo di guardia due cani giganteschi. L'eco dell'allegria, delle mani che battono, dei bicchieri che tintinnano, è ancora là, tenace, sospesa per aria, ma gli invitati no, sono andati via, han tolto gli abiti da cerimonia e han ripreso a lavorare. Tutto questo vortichio di tempo, questo passo dell'oca delle stagioni, mi fa vulnerabile e

Lo stupore

Non si guida con gli occhi chiusi ma io li ho chiusi solo per un momento, perché ho il parasole rotto e la luce sui campi e l'orizzonte era prodigiosa. Tra Tarquinia e Tuscania corrono venticinque chilometri di strada stretta e se li copri alle sei d'un pomeriggio di fine estate il mondo appare nitido come un film in HD, e tutta quella chiarezza acceca. I campi dalle gobbe brulle, le necropoli etrusche che si intuiscono pur dai finestrini, sono come intinti in un bagno d'oro, hanno lo stesso aspetto di tremila anni fa, quando il medesimo sole di oggi, a quest'ora e in questa stagione, già li colpiva di sbieco. Ho rallentato, la via era sgombra, così ho bruciato cento e più metri come fossi in quel romanzo di Saramago: cieco, e irresponsabile. Quando ho riaperto gli occhi tutta quella bellezza si era involgarita, era tornata una cosa ordinaria: temo si sia offesa della mia irriverenza. Ma io, al contrario, l'ho fatto per non saper cantare lo stupore, per non doverne