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Visualizzazione dei post da ottobre, 2019

L'opera necessaria

Ho conosciuto Mario Castelnuovo nel 1981 ma ci ho parlato per la prima volta solo tre giorni fa, al telefono. Nel mezzo, 38 anni in cui ho vissuto sapendo che da qualche parte c'era, e scriveva cose strane e attraenti, e differenti , e che lui non sapeva nulla di me, com'è naturale. Un artista riesce raramente a dare un volto alle persone che lo seguono, e se pur capita è per il tempo di un autografo, per le due ore di un concerto, e poche altre circostanze. Perciò ho vissuto conoscendo di lui alcune cose private non proprio trascurabili - quelle che ho intuito nelle sue canzoni, dai romanzi, dai libri che han raccontato la sua poetica - e lui nulla di me, il che genera uno squilibrio tra le parti. Che è a sua volta una delle controindicazioni della notorietà: svelarsi così intimamente a degli sconosciuti. Questo fanno i narratori, però, e sanno che non c'è alternativa: o quello o il silenzio. E dunque, davvero, ho attraversato le stagioni tenendo a mente le sue canzoni,

Complici

Ah, se avessero un corpo, le parole, e se ogni volta che le pronunciamo ci cadessero di bocca, e finissero ai nostri piedi, e potessimo raccoglierle, portarle alla pesa pubblica e sapere quanti chili fanno, e poi mostrarle a un esperto - come i funghi raccogliticci, - che scarterebbe quelle velenose: allora sì che sarebbe un altro vivere. Invece, di tutto quel che non ci grava in tasca ci liberiamo a cuor leggero, al contrario delle monete, che non regaliamo ai mendicanti neanche per sbaglio. Per come la vedo io - ma spesso la vedo in modo eccentrico - le parole valgono infinitamente più delle monete. Quel balbettio che è la mia scrittura monca, articolato con indescrivibile fatica, vale ai miei occhi più delle operazioni di borsa che il mio broker mi vorrebbe far fare, e dalle quali per diffidente incompetenza mi tengo alla larga. Eppure è vero: sembra che talora non abbiano consistenza, sembrano fatte di vapore. Ce ne arrivano a tiro centinaia che è bello trattenere e milioni a cui

Glicemia

Stamattina pensavo, mentre ho lavato i capelli alla fontana dell'orto, perché il boiler sta lì e l'acqua calda arriva prima: sarebbe enorme se vincessi due milioni di euro alla lotteria, o li trovassi per terra e appartenessero a un trafficante di armi - così che impadronirmene sarebbe giustizia. Cento chilometri dopo, a Tarquinia, per la semestrale capatina etrusca, col sedere in proma sulla terrazza di Cardarelli, mi è perfino venuto d'immaginare come comincerei a spenderlo, quel monte di quattrini. Prima di raccontarlo, però, vi devo svelare cos'è la città d'ottobre, sennò la pazzia è incomprensibile. Allora: lassù, sull'acropoli, è preda di quello scirocco che leviga la Tuscia in autunno, tanto che - se vi affacciate dal balcone che dico - i campi hanno la zazzera perfetta, come un soldato appena uscito da una barbieria. Assieme alle idee bislacche, all'una quel vento portava odori di donne leggiadre, affamate, e già sulla porta dei ristoranti, a far

Felicità cercata

Non ho mai mangiato né dormito al Gattapone, albergo di Spoleto che affaccia sul ponte delle Torri. Benché abiti a un pugno di chilometri, e benché frequenti Spoleto tre o quattro volte l'anno - per il festival e per altre trattorie, - un soggiorno là dentro l'ho sempre rimandato. Chi ci è entrata di continuo è la mia fantasia, invece. Lo immagino come una stazione di posta prima di una terra selvaggia, una casamatta a difesa di un valico, o il posto adatto a una investigazione di Poirot, coi salottini che ho visto solo in foto, le scale a chiocciola, gli affacci sul baratro. Mi preme all'anima il desiderio di andarci, preferibilmente al crepuscolo, per intonare al contesto la malinconia che sempre mi porto dietro. Quanto ad arrivarci, è bene arrivarci a piedi. Parcheggiare fuori porta, lungo le mura che sul versante meridionale delimitano il parco, e arrampicarsi. Solo così si guarda Spoleto tutta intera: salendo per la mulattiera. Perché a quel modo vai piano e hai t

La valigia albanese

Quando hai una casa antica certe stanze sono più polverose e abitate di altre. Quelle che danno sul passato, dico, con muri larghi un metro, i bauli dell'isola del tesoro, botole che portano al piano di sotto, al vecchio mobilificio Franceschini, e gli scartafacci dove teneva i conti la mia famiglia prima che venissi al mondo. Là, in una di quelle soffitte, sopra un bancale, sistemarono una valigia verde scuro, Gino e Gastone, e dentro ci stiparono il presepio. Tutte le statuine - le pecore, i magi, due o tre bambinelli, pastori e oche, la capannola, i fili argentati - che ogni tanto, fuori dicembre, mi facevano nostalgia; e come oggi vorrei allungare i giorni che mancano al prossimo Natale - per invecchiare più lentamente - così ieri avrei voluto accorciarla, l'attesa della festa, e abitarci subito. E a parte la felicità che mi tagliava in due a riaprirla ogni fine anno, quella valigia per Gino era una cosa sacra. L'ho scoperto da grande: me lo dissero, Pietro e Rita, q