Una ragazza dalle natiche fiere, dritta come un punto esclamativo, stamane all'ora di punta attraversava a suo rischio e pericolo via Turati, infischiandosene delle auto che smadonnando le inchiodavano a un centimetro dai pantaloni e degli occhi dei maschi che le cercavano il fondoschiena. Si era come tuffata sulle strisce pedonali, camminava impettita sfidando la sorte, guardava i mentecatti dentro le loro automobiline ed era come se si prendesse gioco di loro, e di me per primo, che stavo in cima alla fila. Tuttavia, siccome tra le poche certezze che ho c'è quella di essere un galantuomo, anziché guardarle il sedere l'ho guardata in faccia, e l'ho riconosciuta: era la fidanzata di un mio antico vicino di casa, parlo dell'ultima casa cittadina dove ho abitato, e che stava proprio nell'appartamento sotto al mio. All'epoca, sei o sette anni fa, quel tipo - che faceva l'infermiere - mi era cordialmente antipatico. Non c'era un motivo preciso: non avevamo mai litigato per faccende condominiali, non mi aveva graffiato la macchina e non faceva casino alle due di notte ascoltando il metal. Mi stava sulle scatole e basta, per quella ostilità affatto epidermica che scoppia talora tra gli esseri umani. Non ci salutavamo che a mezza bocca, se per disdetta ci incontravamo in ascensore; e quando stavo per uscire e sentivo che apriva la porta aspettavo che se ne andasse per non reggere la fatica di doverlo incrociare. Era più giovane, più bello, più alto di me, e a parte queste quisquilie non c'era ragione perché lo detestassi. Finché un giorno accadde una cosa strana. Dovevo andare a scuola, ero in ritardo. Spalanco la porta di casa e anche lui fa lo stesso con la sua, praticamente all'unisono. Non posso giocare a nascondino, non ho tempo, l'ascensore è occupato e allora mi butto per le scale. Lui mi precede: ha le gambe più lunghe e il vantaggio di una rampa di meno. Arriva al portone principale quando io sto ancora scendendo e nel momento in cui varca la soglia avviene il miracolo. Mi aspetta. Mi aspetta e quando arrivo - quattro secondi dietro di lui - mi cede il passo, con una mano tiene aperto il portone e sorride. Lo ringrazio, bofonchiando, e mi sento un verme. Salgo in macchina, girandomi ancora a salutarlo, impacciato. Lui alza la mano e ricambia il saluto. Da quel momento ci siamo odiati un po' di meno. Non dico che ci siamo amati, perché la freddezza è rimasta, ma ogni tanto ci fermavamo in cortile a parlare di football o dei film di Muccino. Non pensavo a lui da un secolo. Vedendo la sua donna, oggi, che chissà se è ancora la sua, mi è tornata in mente 'sta storia. Che a volerla far diventare paradigmatica dei rapporti umani, ci sarebbe da divertirsi. Ma non mi piace granché che quello che scrivo abbia una morale. Se vi gira trovatela voi, perché a me è venuta fame.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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