Un paio d'anni or sono comprai da un libraio ambulante, che girava su un'Ape Piaggio stipata di libri di tutte le fogge, L'idiota, di Dostoevskij. Ero a Tarquinia, c'era il sole, la gente sembrava aver dimenticato di dover morire: rideva, flirtava, mangiava nei ristoranti e salvava sui cellulari i numeri delle case in affitto per le vacanze estive. La copia era incellofanata, per snudarla mi rovinai le unghie, e ad aprirla fece uno sbuffìo come di sollievo, per essere stata liberata dopo tanto tempo. Camminai un po' sulla spiaggia cercando un posto tranquillo per mettermi a leggere. Superai un monticchio di alghe, una scialuppa di salvataggio abbandonata e dietro una duna disegnata ad arco dalle onde trovai una specie di sedile di sabbia quadrato, comodo abbastanza per starci una mezz'ora in pace. Spinsi mute sul cellulare e mi isolai dal resto del mondo. Un temerario sul parapendio scendeva dal cielo, due ragazzi litigavano più per finta che per davvero tra il mare e la battigia: cancellai tutto quell'orizzonte frivolo e restai solo. Aprii di nuovo il libro, che stavolta fece un rumore di vertebre che si stirano. A pagina quaranta - la pagina aperta a caso - c'era un'anomalia, una cosa che non avrebbe dovuto esserci: un pezzo di carta rettangolare, evidentemente strappato da un quaderno a quadretti, con sopra scritto a penna un nome: Kate. Lasciai perdere le schizofrenie del principe Myskyn e mi rigirai tra le mani quel mistero. Chi poteva aver infilato quel frammento tra le pagine se il libro era nuovo? Un operaio nella fabbrica dove lo avevano stampato? E perché? Tornai sui miei passi, il libraio ambulante era ancora sul lungomare. Gli raccontai il fatto. Era un uomo bello, più vicino ai settanta che ai sessanta, abbronzato e libero da legami, come tutti gli uomini di savia felicità. Mi raccontò che si procurava quei libri in giro per i paesi etruschi, là attorno - Tuscania, Montalto, Vetralla - e che sovente glieli regalavano: librerie in fallimento, biblioteche proprietarie di doppioni, eredi di professoresse di Lettere che non vedevano l'ora di liberarsi di tutto quel ciarpame. Non ricordava da chi avesse avuto quel romanzo. Ricordava solo che ce l'aveva da un bel po'. Forse è stato quel giorno che ho fermato l'Ape in piazza san Lorenzo, a Viterbo. Ogni tanto mi spingo fino alla metropoli. Ma mica così de frequente eh! Lo ringraziai e feci dietrofront, un poco scoraggiato. Non tornai al mio sedile di sabbia, la sera scendeva in fretta, mi si era fatto appetito e presi a cercare un ristorante. Mentre mangiavo, rimuginavo. Ero solo, senza nessuno con cui spartire la ricostruzione arbitraria dei fatti. Mi seccava che quell'enigma restasse insoluto, ma alla fine mi misi l'anima in pace: è bello, capii quella volta, che non tutto si riesca a spiegare, che restino dentro e intorno a noi zone d'ombra. Tutti i pasticci di questo genere - indistricabili, romantici - da quel giorno li trovo irresistibili.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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