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Visualizzazione dei post da novembre, 2017

Dietro alla Gamberale

Va da sé che certe mattine si sparecchiano di robe da fare per forza e mi ritrovo in braccio ore da riempire di quel che mi va. Come un regalo che mi faccio da solo, giro per i due o tre negozi in cui mi diverte girare, rallento il passo, cullo un sano egoismo e lascio che accadano cose. Non ci metto penna. Mentre spendo l'ira di dio in dischi e libri e progetto di comprare altra beatitudine - presempio, infatuato, nascondo dietro alla Gamberale certi romanzi perché nessuno ci arrivi finché non mi decido a scucire il denaro - ragiono sulla mia scrittura, pesante e leggera di ricordi. È come per le canzoni: sembrano fatte di niente e ti scolpiscono la vita come fosse di marmo. Gli venisse un accidente. Nel 1978, per dirne una, viaggiavo in Sardegna sull'Alfetta dei miei, e tra Olbia e Budoni la radio trasmise Raggio di sole . Che lì per lì mi parve una sciocchezza - giacché avevo undici anni e nessuna educazione allo stupore. Invece mi sa che mi entrò dentro, passando per qual

Quaranta notti

La memoria di un narratore deve essere inquirente, per funzionare. Io nella testa ho Scotland Yard, e non c'è di che vantarsi - ma tant'è -  per via che mi costringe ogni giorno a setacciare il passato alla ricerca di indizi - un brillìo di stagione, un evento gentile, una dolcezza da chi non credevo capace - che non ho ancora raccontato. Ecco per cui che alla luce opaca di novembre, che mi piove in casa come viaggiasse dall'Irlanda brumosa, apparecchio i ricordi e scovo quelli che sono ancora muti. C'è un perverso gusto, a farlo, e una mite presunzione. Tutte e due le emozioni riguardano me, non pretendo che le condividiate. Del resto, non sta in nessun vangelo che si debba scrivere ciò che la gente ha piacere a leggere: i cattivi narratori, lo fanno. I buoni, incorrotti, hanno un ristorante - per restare nella  metafora ghiotta - dove le pietanze il cliente non le sceglie: gli sono imposte. Salvo poi accorgersi - una volta morsicate - che non sono male. Prendo allora

La banca ai suoi piedi

Sul bordo del fazzoletto che è largo Villa Glori, stamattina, un uomo con una grande barba prussiana suonava da dio un flauto traverso. Era un finfirulin leggiadro, un soffio di poesia dentro i fori - ho riconosciuto Il cardellino di Vivaldi, perché lo suonava anche Gastone, quando lo pigliavano attacchi di disamore per il pianoforte. La custodia, per terra, era piena di monete, e la gente, arrivandogli a tiro, rallentava, si fermava; qualcuno ha aperto in faccia un sorriso insperato come per la fine di un patimento, quasi che quell'uomo avesse in tasca una calamita che attirava i melomani. Portava calzoni corti, le gambe erano viola di vento intirizzito, e avrà avuto sessant'anni. Ho pensato alla sua casa, se ne ha una: forse a lui non spiacerebbe sistemarsi in una chiatta sul fiume, e se abitasse a Roma so che sarebbe possibile. Li chiamano fiumaroli : vivono dieci metri sotto il livello della strada, beati loro. Per scelta, voglio dire, non per povertà. Io andavo in banca

La contentezza

Eccola che arriva, come d'estate la patina bianca sul cioccolato, e allo stesso modo non è che un difetto apparente. All'improvviso mi veste - è successo poco fa, a pranzo, tra un boccone di pane intinto nel sugo e una nuvola scemotta sopra casa -  e vestendomi mi smorza, mi placa, e resto fermo e seduto, apparentemente sfinito. Sto buono invece perché se mi agito ho paura che scappi dalle ossa. La contentezza, dico. Oh diamine, è così che la chiamo, ognuno la battezzi come crede. Perché mi piace quella sillaba quasi ripetuta - ten tez - come un soldato che suona una campana per annunciare che è finita la guerra; o Babbo Natale che mescola col cucchiaio la tisana al rosmarino, ai tempi in cui gliela lasciavo - credulo - sulla brace fioca. Basta che qualcosa giri per il verso giusto - una diretta in radio fatta come dio comanda, una parola illuminata che non mi veniva dentro un racconto, Susi che prende 8 a filosofia dopo un pomeriggio passato a studiare insieme Eraclito - e l

La mia prima vacanza

Devo scrivere il mio nome su questa valigia. Mi hanno dato un pezzo di gesso, ma se piove il gesso scolorirà e nessuno saprà più che questa è la mia valigia. Ho la febbre, sento la fronte scottare, ma sono felice. Jacob è partito già il mese scorso. Mi aspetta laggiù, dove il sole fuma nel mare come un ferro rovente e il vapore che sale dall’acqua offusca il tramonto. Laggiù mi curerò la tosse, il clima secco mi aiuterà. Mio padre e mia madre sono da qualche parte là fuori, in attesa del nostro treno, tra mille altre persone in partenza per il mare. La mia prima vacanza. Da quando sono nata, undici anni fa, è la prima volta che esco dal mio quartiere. Papà ha lavorato il doppio per pagare questo viaggio. Un giorno è tornato a casa con una promozione. L’ingegnere ha apprezzato così tanto la sua dedizione che lo ha promosso caposquadra, e gli ha messo una fascia sul braccio. Sembra il capitano di una squadra di calcio. Ora, quando s’arrampica sulle impalcature, è lui a