Quanto sono vecchio, per la miseria, quanti anni ho! Quando sono arrivati? Mentre dormivo? Se è così, viva l'insonnia. E come? Alla spicciolata o tutti assieme? Hanno assalito la fortezza della mia gioventù e han scalato le mura o mi hanno svegliato e convinto con l'inganno ad abbassare il ponte levatoio? Ad ogni modo sono tutti qui, li vedo e li conto, e ognuno ha un difetto, un arto spezzato, la schiena piagata, gli occhi ciechi. A ognuno rintocca una sfortuna e un disagio, una pestilenza e un castigo ma pure una sfacciata felicità: a lampi certo, a bagliori, mentre il dolore è denso è continuo, e sordo. Sono diventato grande, sono diventato adulto, sono diventato padre ansioso, passo il tempo a guardare dalla finestra la strada vuota, e ad aspettare. Aspettare: che gesto odioso. A furia di aspettare si arriva a un tempo dove non fai che addizionare le attese di tutta la vita senza che il risultato sia un premio: la somma della pazienza. Non ho trovato quasi mai regali alla fine delle veglie, li ho trovati quando me li sono andati a prendere, ed erano premi per aver accorciato le distanze tra il desiderio e l'appagamento. Non è vero che conta il viaggio e non la meta, è la scusa di quelli che non arrivano da nessuna parte. Conta il risultato, invece, come quando giochi a pallone: giocare bene non basta, non serve a niente se non vinci. Per cui aspettare, dicevo: anche basta. Dal dieci gennaio, che compio gli anni e sono anni che pesano benché talora li senta come un tascapane di piume, taglierò le parti noiose della vita e le butterò come i filacci di pasta secca sui bordi della spianatora. Più concretezza, meno poesia: ecco di che parlo. Architettare una vita di preparativi in vista di un tempo che non verrà, che non esiste, è da mentecatti. La mia vita è davvero qui e ora, qui e ora voglio che esca un altro romanzo, qui e ora voglio comprare un buco d'appartamento da cui guardare tutte le mattine il mare. Qui e ora voglio smettere di aver paura delle risonanze magnetiche, della diossina che respiro e di tutti i cento malanni che mi può provocare. E voglio smetterla di dover chiarire le mie parole, di doverle giustificare. Per questo ho bisogno di parole limpide, esatte, per questo studio a capofitto dentro i libri di quelli che scivono meglio di me: per imitarne il rigore. A cinquantaquattro anni son tutti lussi che mi posso permettere.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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