Ogni sabato davanti alle finestre di casa mia fanno il mercatino. Merciai coi camioncini, venditori di frutta secca, produttori di ricotta, aziende agricole coi loro banchetti di leccornie, ambulanti che trafficano in scampoli e piumini a buon mercato, si radunano dalle sei del mattino, occupano i posti assegnati e apparecchiano la mercanzia. Io, che mi alzo presto anche nel fine settimana, metto sul fuoco il pentolino del latte e imburro le fette biscottate mentre loro sfacchinano ad abbassare pianali e a piazzarci sopra decine di pentole e mortai rumorosi, di zinco e alluminio. Ma è un rumore allegro, tutt'altro che fastidioso: è il suono della gente che lavora nonostante tutto, che ha famiglie da sfamare e mutui da spegnere. Si conoscono da anni, si salutano, si raccontano gli acciacchi, commentano il tempo - a volte lo maledicono, e se piove alzano teli di plastica tra i banchi e la tempesta. Se è inverno, qualcuno di loro calza il cappuccio e si rintana tra le vestaglie, che lo salvano dal vento gelato, e se non guardi con attenzione non lo vedi, mimetizzato com'è. Dopo un'oretta o due - dipende dalla stagione - cominciano ad arrivare i primi clienti, i più scaltri, quelli che vengono a scegliersi la verdura migliore prima che rimangano solo gli scarti. Stamattina per esempio, a onta della tramontana che tagliava le teste, certi temerari sceglievano i cespi d'insalata più freschi, proprio mentre io sfilavo davanti per andare in piazza, a comprare il giornale. E a quel punto l'ho vista: una scena che mi ha rimesso al mondo. Il signore che abita poco più su di me aveva preparato una moka da dodici e riempito di dolcetti un vassoio capiente, e faceva il giro degli ambulanti distribuendo bicchierini di plastica riempiti a metà e ciambelline. Tutti si scaldavano, tutti dicevano Che buono questo caffè, tutti addentavano chi una pastarella chi un biscotto fatto in casa, e san Girolamo è diventato un bar all'aperto, improvvisato e magnifico. Quando il caffè è finito, il benefattore è salito in casa a farne dell'altro, perché qualcuno era rimasto a bocca asciutta. Mi sono fermato a guardare quella commozione, e lì mi è venuto l'estro di scriverne. E siccome rifuggo la retorica come la peste, qui m'interrompo: ognuno ne tragga la morale che vuole.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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