Ogni sabato davanti alle finestre di casa mia fanno il mercatino. Merciai coi camioncini, venditori di frutta secca, produttori di ricotta, aziende agricole coi loro banchetti di leccornie, ambulanti che trafficano in scampoli e piumini a buon mercato, si radunano dalle sei del mattino, occupano i posti assegnati e apparecchiano la mercanzia. Io, che mi alzo presto anche nel fine settimana, metto sul fuoco il pentolino del latte e imburro le fette biscottate mentre loro sfacchinano ad abbassare pianali e a piazzarci sopra decine di pentole e mortai rumorosi, di zinco e alluminio. Ma è un rumore allegro, tutt'altro che fastidioso: è il suono della gente che lavora nonostante tutto, che ha famiglie da sfamare e mutui da spegnere. Si conoscono da anni, si salutano, si raccontano gli acciacchi, commentano il tempo - a volte lo maledicono, e se piove alzano teli di plastica tra i banchi e la tempesta. Se è inverno, qualcuno di loro calza il cappuccio e si rintana tra le vestaglie, che lo salvano dal vento gelato, e se non guardi con attenzione non lo vedi, mimetizzato com'è. Dopo un'oretta o due - dipende dalla stagione - cominciano ad arrivare i primi clienti, i più scaltri, quelli che vengono a scegliersi la verdura migliore prima che rimangano solo gli scarti. Stamattina per esempio, a onta della tramontana che tagliava le teste, certi temerari sceglievano i cespi d'insalata più freschi, proprio mentre io sfilavo davanti per andare in piazza, a comprare il giornale. E a quel punto l'ho vista: una scena che mi ha rimesso al mondo. Il signore che abita poco più su di me aveva preparato una moka da dodici e riempito di dolcetti un vassoio capiente, e faceva il giro degli ambulanti distribuendo bicchierini di plastica riempiti a metà e ciambelline. Tutti si scaldavano, tutti dicevano Che buono questo caffè, tutti addentavano chi una pastarella chi un biscotto fatto in casa, e san Girolamo è diventato un bar all'aperto, improvvisato e magnifico. Quando il caffè è finito, il benefattore è salito in casa a farne dell'altro, perché qualcuno era rimasto a bocca asciutta. Mi sono fermato a guardare quella commozione, e lì mi è venuto l'estro di scriverne. E siccome rifuggo la retorica come la peste, qui m'interrompo: ognuno ne tragga la morale che vuole.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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