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Per amor del cielo: pensatemi!

Ci sono attimi,  minuti e ore in cui io non esisto, non sono mai nato, non cammino per il mondo. È il tempo della dimenticanza, del soprappensiero, quando scompaio dalla memoria di tutti, di chi sta in Australia e di chi sta a Genova - ammesso che chi sta in Australia e chi sta a Genova pensi a me, di tanto in tanto. Quando tutti smarriscono il tuo nome contemporaneamente, quando nessuno al mondo di quelli che conosci lascia che tra i suoi ragionamenti irrompa la tua faccia, la tua voce, e gli scombini i piani, gli rallenti il passo, gli incasini la strada sotto i piedi, ecco, è proprio allora, in quel preciso frangente, che smetti di esistere. Si esiste solo quando si è pensati, allora, quando qualcun altro ci proietta nella sua testa: in fantasia - lavorando su una speranza, un desiderio -  o recuperando un giorno antico vissuto assieme, a progettar sconcezze o a giurarsi fedeltà, ad arrampicarsi sui ciliegi in primavera o a far sega a scuola. Capita di rado che tutti i nostri amori ci dimentichino nello stesso momento, ma capita. Che poi non è proprio una dimenticanza, è un non pensare, e sono due gesti differenti: il primo è incurabile, il secondo un guaio passeggero. Però quando succede io scompaio, come i calcoli algebrici sbagliati sotto il bianchetto, e mi assale una smania triste di distacco dal pianeta Terra, una sindrome da invisibilità che mi fa dubitare dei miei polmoni e del mio fegato, delle braccia stancate, della testa e dei sogni. Divento leggero, volatile, fantasma. Se non posso infestare la memoria della gente, se non posso essere colui per il quale sospirano, quello che si addolorano di aver perduto o il lestofante che a distanza di anni ancora detestano, che campo a fare? Così scrivo: non per vanto, per promemoria. Per fare in modo che chi vuole possa imbattersi in me e sbigottire - Ah, ma dunque questo tanghero è ancora in circolazione! - e così facendo considerarmi, e ridarmi un corpo, una possibilità. Mi ricompongo, a quel punto, come Vil Coyote, che dopo esser precipitato dalla rupe nel fotogramma successivo è tutto intero, il ghigno diabolico e la dinamite in mano, pronto a far saltare per aria quel fottuto struzzo. Tanto non ce la farà, tanto lo struzzo vince sempre, e lo sberleffa. Ma lasciatemi almeno la speranza che una volta di queste il disegnatore si ribelli, e di quel maledetto uccello non rimangano che piume sbruciacchiate.

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