Tra qualche settimana copriranno i campi da tennis con il pallone, per giocarci d'inverno. Da qui a un mese la notte gelerà e mi toccherà parcheggiare sotto le piante, per evitare che il vetro si ghiacci. Se mi volto vedo l'estate che è già passata, con la paura della colonscopia, la costipatissima costiera amalfitana, le temperature feroci, le formiche nella dispensa, la riscoperta di Branduardi, il climatizzatore che funziona solo se per azionarlo mi arrampico su una scala, perché ho perso il telecomando. Appena ieri eravamo a una festa e oggi il prato è deserto, hanno accatastato i tavoli in un cortile, li hanno incatenati e han messo di guardia due cani giganteschi. L'eco dell'allegria, delle mani che battono, dei bicchieri che tintinnano, è ancora là, tenace, sospesa per aria, ma gli invitati no, sono andati via, han tolto gli abiti da cerimonia e han ripreso a lavorare. Tutto questo vortichio di tempo, questo passo dell'oca delle stagioni, mi fa vulnerabile e vagamente ispirato, e però anche consapevole dello scarto che c'è tra la vita che percepisco - gonfia di meraviglie - e il racconto che ne riesco a fare. Ecco perché di certi giorni scrivo, per non vederli svanire, ed è come metter dei segnaposto su una tavola imbandita: ogni posto un ricordo, ogni ricordo un nome. La via in salita dove abitava Gino ha la medesima pronuncia di un tempo, così che a dirla oggi sembra che lui sia ancora là attorno. Il giornale che Pietro comprava la domenica esce sempre, e ha lo stesso titolo di allora, e forse aspetta invano che mio padre lo sfogli - saltando le notizie atroci - per leggere la formazione della Nazionale. L'illusione che il tempo si possa fermare s'inganna nella toponomastica della tenerezza, dell'amore perduto che in qualche modo resta, dei natali inghiottiti dall'universo eppure ancora presenti, in alfabetica rievocazione. La sintassi delle nostalgie insiste nella mia anima ed è fatto di ciò che ho chiamato, definito, nominato. E quel che ho chiamato, definito, nominato, è inevitabilmente presente in vocali e consonanti nella mia lingua, e nella sua versione immutabile davanti ai miei occhi.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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