Tra qualche settimana copriranno i campi da tennis con il pallone, per giocarci d'inverno. Da qui a un mese la notte gelerà e mi toccherà parcheggiare sotto le piante, per evitare che il vetro si ghiacci. Se mi volto vedo l'estate che è già passata, con la paura della colonscopia, la costipatissima costiera amalfitana, le temperature feroci, le formiche nella dispensa, la riscoperta di Branduardi, il climatizzatore che funziona solo se per azionarlo mi arrampico su una scala, perché ho perso il telecomando. Appena ieri eravamo a una festa e oggi il prato è deserto, hanno accatastato i tavoli in un cortile, li hanno incatenati e han messo di guardia due cani giganteschi. L'eco dell'allegria, delle mani che battono, dei bicchieri che tintinnano, è ancora là, tenace, sospesa per aria, ma gli invitati no, sono andati via, han tolto gli abiti da cerimonia e han ripreso a lavorare. Tutto questo vortichio di tempo, questo passo dell'oca delle stagioni, mi fa vulnerabile e vagamente ispirato, e però anche consapevole dello scarto che c'è tra la vita che percepisco - gonfia di meraviglie - e il racconto che ne riesco a fare. Ecco perché di certi giorni scrivo, per non vederli svanire, ed è come metter dei segnaposto su una tavola imbandita: ogni posto un ricordo, ogni ricordo un nome. La via in salita dove abitava Gino ha la medesima pronuncia di un tempo, così che a dirla oggi sembra che lui sia ancora là attorno. Il giornale che Pietro comprava la domenica esce sempre, e ha lo stesso titolo di allora, e forse aspetta invano che mio padre lo sfogli - saltando le notizie atroci - per leggere la formazione della Nazionale. L'illusione che il tempo si possa fermare s'inganna nella toponomastica della tenerezza, dell'amore perduto che in qualche modo resta, dei natali inghiottiti dall'universo eppure ancora presenti, in alfabetica rievocazione. La sintassi delle nostalgie insiste nella mia anima ed è fatto di ciò che ho chiamato, definito, nominato. E quel che ho chiamato, definito, nominato, è inevitabilmente presente in vocali e consonanti nella mia lingua, e nella sua versione immutabile davanti ai miei occhi.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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