Ci sono uomini che somigliano alle stagioni e ogni tre mesi cambiano carattere. Sono uomini dalla natura esposta come i banchi al mercato, indecisi tra il piovere e il tirar di vento, tra l'esser canicola e il diventar tempesta. La loro indole è dunque lunatica e vanno presi per il verso giusto, pretendono che li si capisca a ogni mutazione, sono capricciosi e spesso cercano una donna che abbia le medesime ubbìe, così da metter su famiglia in un manicomio. Ne ho conosciuti un paio, di personaggi del genere: eravamo amici e forse lo siamo ancora ma il guaio e che non ce lo rinfacciamo da tanto e può anche darsi che l'amicizia non rinfacciata a un certo punto muoia. Io per conto mio spero invece d'essere d'un unico colore, che poi è un mucchio, perché ho una stagione sola a cui affamigliarmi ma è variopinta, tanto che se un pittore mi volesse ritrarre verrebbe un acquerello col rosso bruciato delle foglie d'ottobre, il verdolino dei parchi di città, il bianco sporco degli stagni dove intirizziscono le oche, il blu dei caffè concerto coi cognac sui tavoli e il viola dei drappi nei teatri dismessi. Io sono l'autunno e l'autunno è me, e vado in cerca, da che ne ho memoria, di gente che vanti la stessa confidenza con la malinconia, perché è il carattere che più snuda le cose, le svela, le scamuffa, e per il tramite di un dolore sottile le fa più vicine. L'anima di certi di noi ha dunque bisogno di questa compiacenza col mondo, di dar del tu a ogni furibonda tenerezza, per poterla raccontare, catalogare. Aggiungo che chi possiede un temperamento del genere - stiepidito della ferocia d'agosto e non ancora preda dei mesi raggelati - ai miei occhi appare come un sognatore, un mite, un poeta che volentieri inviterei a cena, un buon conversatore e un esteta. L'autunno nasconde le altre stagioni, le mischia, le sublima in un tempo riassuntivo e differente, delle sue sorelle trattiene le parti migliori: l'allegria dell'estate, l'orgoglio della primavera e la sopravvivenza dell'inverno - che è femmina anch'essa pure se finisce con la o, come chi si chiama Cleo - diventando così stagione aliena e primordiale. Chi possiede queste doti, del resto, è non di rado pratico del magnifico atto del considerare, che una volta indicava chi osservava le stelle - etimologicamente parlando - ma che poi qualche illuminato pensò di adottare come sistema di relazione tra gli esseri umani. E osservare il prossimo come fosse una stella - col vantaggio che è assai più vicino - probabilmente ci fa essere meno definitivi e arroganti, ci fa immedesimare. A patto di rimanere per tutto l'anno, coerentemente, autunnali.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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