Stavolta comincio dalla gelateria, a raccontare: due piaceri in uno. Non da una gelateria qualunque però, seppur ce n'è più di qualcuna, tutte pregevoli. Questa che dico si chiama Gambella, sta in via Mazzini - o in piazza Cavour, a seconda delle fantasie di Google maps - e ve la trovate davanti se girate a destra uscendo dal museo etrusco. C'è una terrazza, lì - fateci caso: ci state camminando sopra - dalla quale con gli occhi si arriva al mare, a quel Tirreno di alghe molli e acqua scura che innamorò tanti viaggiatori. Permettete che vi offra un cono gianduia e torroncino o una coppa di cremolato al caffè, e fatemi compagnia su una panchina - ce n'è una libera laggiù, andiamo, prima che ce la rubino. Siete comodi? Avete portato un giacchino nel caso si alzasse il vento? Non è ancora primavera, benché oggi un avamposto nei giardini se ne aggirasse, spaesato. Vi ho portati qui perché vi rendiate conto: questo è quello che io canto, quello che io scrivo. Ecco la sera celeste di Tarquinia, ecco i suoi soprassalti amorosi. Questi sono i tavolini dove ho fatto colazione il primo aprile del '96, quello il negozio di scarpe dove comprai un paio di mocassini che mi stritolavano i piedi, quella la finestra dell'appartamento dove io e una mia amica soggiornammo osceni, prima della pestilenza. Guardate bene, distraetevi con un pensiero che non c'entra niente e poi guardate una seconda volta, guardate meglio. Gli oggetti della poesia, gli accidenti del dolore persistente, stanno tutti in fila, impettiti, vagamente fieri. Il mio timore è che le parole non corrispondano, non rintocchino argentine quando sbattono loro addosso ma facciano un suono sordo, sgraziato, così che la differenza tra realtà e scrittura sia un male incurabile, un difetto per cui il narratore, ridicolmente, si tormenta. Osservate allora questi fondali di scena, queste carabattole abbandonate sul palco: è tutta merce che non vale niente eppure è inestimabile, maledetto sia il paradosso degli artisti. Riempitevi il cuore, fotografate ogni angolo: il gratta e vinci per terra, il menu della friggitoria turca, il retro dell'edicola colle riviste di viaggio ingiallite. Io frattanto torno a casa - il gelato era buono? Fermi con quelle monete, siete miei ospiti, già l'ho detto. Scappo dalle nostalgie, dal progettino di un futuro qui. Ora sapete di cosa parlo quando non ci sono per nessuno, nemmeno per mia figlia, quando sono momentaneamente lontano. Le sfocature del mio alfabeto qui diventano immagini nitide, vi ci ho portato di persona, a vedere le cose: è l'unico gesto che uno scrittore può improvvisare per farsi capire un po' meglio, e non lasciare nulla di intentato.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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