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I tramonti del Pincio

Il 19 luglio del 1986, cinque giorni dopo gli esami di Stato, orfano di responsabilità, con la testa vuota di progetti, me ne presi il treno e senza dir niente a nessuno sgattaiolai a Roma. Lì c'era l'università e volevo vedere da vicino com'era fatta, capire se ero in grado di camminarla fino in fondo, con tutte quelle pietre aguzze sul percorso. E poi volevo guardare la città per la prima volta da solo. L'estate romana di Renato Nicolini m'aveva smosso la fantasia, che è una cosa che ogni tanto va mescolata, sennò rimane torbida sul fondo della vita. Tutti quei concerti gratis, quegli audaci film all'aperto, il rispetto per le parole degli altri e il silenzio se non se ne hanno, la caciara contro l'apertura di un fast food a piazza Navona, l'effimero meglio dell'eterno perché si adegua alla brevità dell'uomo, la libertà da conquistare, i tramonti rossi del Pincio, la mia indole ancora inimmaginabile però già - forse - in embrione da narratore scontrosetto: ecco quel che mi chiamava, che mi corteggiava. Carlo Verdone aveva appena girato Troppo forte, il suo film meno amato, eppure io ci avevo trovato - nei campi lunghi sui quartieri deserti, nella disperazione dietro la spacconeria - dei gran pregi, e l'infelicità del clown. Così volli vedere dal vivo quel set naturale, e lo andai a cercare vagabondando, dalla stazione Termini in poi. Negli occhi, nella stanchezza, mi cadde una Roma immane, casta, laida e pericolosa. Fu il mio battesimo del fuoco. Intuii la complessità delle cose dalla complessità dello spettacolo, e fu un piccolo trauma: mi avevano detto che era tutto più semplice, comprensibile, quieto. Mi avevano detto che bastava conoscere la realtà per sentito dire. Quel giorno, a camminare sconvolto per Campo de' Fiori, ogni scena mi apparve meravigliosamente contraddittoria, burlesca e solenne, avrei voluto entrare dentro a tutto e tutto catalogare, mettere ordine nei sentimenti contrastanti cui quel teatro di guerra mi istigava. Alla fine, verso sera, affamato, già morto nell'apprensione dei miei, capii che mi era toccata quella natura inquirente e che studiare capire e parlare erano le azioni che avrei tentato di fare - in quest'ordine, da quel giorno bellissimo in avanti - prima di aprir bocca. Per stare al mondo con tutta la decenza possibile.

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