Passa ai contenuti principali

La dolcezza manifesta

Stamattina ho incontrato una ragazza che piangeva. Andavo in radio e lei a scuola - avrà avuto sedici anni e reggeva un vocabolario di greco. Le ho letto in faccia assieme al rossore una dignità, nella debolezza, che io alla sua età non ho mai mostrato. Non dico che non l'avessi ma non ero capace di esibirla, come se anziché un drappo fosse una mortificazione. Così ho ripensato a certe mie lacrime - quelle che ricordavo - e quei frangenti li ho trovati tutti un equivoco. Ho pianto per amore, gelosia, rabbia, disperazione - da ragazzo ordinario qual ero - e non ho mai trovato che il gesto mi consolasse. Al contrario, mi umiliava. Per qualunque motivo quella ragazza piangesse, lo faceva invece guardando in faccia la gente, combattendo l'inquisizione pettegola, la derisione, col diritto a una dolcezza manifesta, sentimento cui dovrebbero dedicare una giornata l'anno, come si fa col jazz o le api. Quell'incrociarsi per strada - una volta sbrigate le faccende di lavoro - m'ha lievitato dentro con l'urgenza delle cose che insistono per farsi raccontare. Cosa che sto facendo ora, e col suo inconsapevole permesso. C'è poco altro da dire, tuttavia, se non la natura, per coerenza, di un rimpianto: il mio di quando ero vulnerabile e me ne vergognavo. Sarebbe fantastico, all'inverso, se liberassimo da quella corazza ridicola il nostro dolore - qualunque ne sia la causa - e come quella ragazza, che forse ha aperto un varco inedito all'umanità, potessimo fieramente piangere in pubblico, e ci fossero spettacoli teatrali in cui gli attori si disperano per tutta la commedia, e a scuola dedicassero un paio d'ore la settimana a una nuova scienza: la pedagogia della commozione. Io piango ancora, alla mia età, ma al buio, o da solo: al cinema e in macchina. Sono i miei confessionali segreti, senza preti e senza espiazioni. Se sapessi farlo davanti a mia figlia, a mia madre, in piazza o esattamente al centro d'una diretta qualunque - tipo un mercoledì di febbraio mentre parlo di Wall•E a chi non l'ha visto - potrei, in tutta onestà, sentirmi grato a quella sconosciuta per il regalo che m'ha fatto. 

Commenti

Post popolari in questo blog

Lasciami andare

Valerio, avevi ragione, dovevo lasciar andare. Ti ricordi che ne parlavamo? Io trattenevo, aggiustavo, incollavo. Tu dicevi "Sei stato bene con quella ragazza? Basta, non cercarla, non chiamarla". Oppure "Ti manca tuo padre, ne hai nostalgia? No, non darle retta, via, è finita". Dicevi che dovevo conservare la memoria ma senza ogni volta inseguire il passato: io ho sempre pensato che le due cose fossero inseparabili, mi hai aperto gli occhi. Così faccio con le case che ho abitato: non le guardo più le fotografie, che si secchino pure dentro gli armadi. Lasciar correre, lasciare indietro. Un suggerimento sensato, così facendo uno mette a posto il disordine delle stanze, ma si vive meglio in un ambiente in cui tutto è dove deve stare? A questa obiezione facevi spallucce, una finta di corpo - come quando giocavi mezz'ala e io al centro dell'area aspettavo il tuo cross per segnare - e uscivi dal bar. Forse pensavi Che testa di cazzo , ma con tenerezza, perché ma...

Primavera di vento

A Tarquinia c'è un albergo nascosto in mezzo alla pineta, non affaccia al mare, è l'albergo dei nostalgici, degli amanti e delle canzoni d'autore. Tira sempre vento quando ci vado, ma è il vento leggero del Tirreno che volta le pagine del libro che ho in testa assieme ai ricordi della giovinezza, mai finita e mai rinnegata. In una primavera di vent'anni fa, una primavera anch'essa di vento, ci arrivammo per caso, tu ed io, ragazza amorevole di un'altra vita. Dal litorale non si vede e se non sai che c'è è difficile trovarlo, e noi cercavamo una camera col balcone sulla spiaggia, per cantare un'altra volta il caso, divinità innamorata delle onde azzurre e dei fortunali. Cenammo invece a bordo piscina perché l'hotel segreto ci rapì, e il mare restò una voce di là dalla strada, una prospettiva per l'indomani, l'abisso dentro cui stavamo per cadere dopo quella notte di soprassalti. Ti presi e poi tu prendesti me e alla fine la stanchezza ci rese ...

Il numero settecento

Mi sono perso. Ho girato a vuoto per certe colline che credevo familiari, il gps non prendeva, nei paraggi nessuno a cui chiedere la strada. Cercavo una certa locanda che in una canzone del settantatré viene cantata come un posto di frontiera,  ero certo esistesse davvero, volevo vedere com'è fatta, che gente la frequenta. Quando stavo per darmi per vinto l'ho trovata. I posti come questo, di confine, io li amo, li eleggo a covili di creatività perché là dentro passano mille venti, centomila viaggiatori, e ogni vento e ognuno di quei viaggiatori ha una storia da raccontare, e a intrecciarle ne viene fuori una inedita che ha in sé tutte le intonazioni delle altre ma una stravaganza solamente sua. Quando finisce il giorno in quegli avamposti lontani arriva il silenzio, le voci smettono di bisticciarsi e io posso abitare una veranda con vista sui campi di girasole come fossi in Alabama, e provare a confessare in libertà quello che ho in testa.  Eccola, l'eucarestia  della sc...