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Piacevolissimo

Sono in viaggio un'altra volta, perché stare in casa non fa per me. Tra Marina Velca e Montalto mi viene fame, scendo a un ristorante di mare, nonostante il Tirreno a febbraio sia un ospite dai modi spicci. Per giunta decido di sedermi fuori, con l'ottimismo della volontà mai domo e la speranza d'una primavera in anticipo. Tra le tovaglie, sugli steccati che ci separano dalla spiaggia, vola una famiglia di passeri, si ferma a piluccare le briciole, con un frullo d'ali riparte tutta assieme, rotea sulle teste e tra le gambe di altri viaggiatori. Siam tutti lì a mangiare stretti nei soprabiti, i capelli sconvolti: c'è un vento freddo e muto che  arriva da tutte le parti, solleva i miei appunti, vorrebbe leggere in anticipo ciò che nemmeno io so bene cos'è. Quel che c'è intorno è così perfetto che è un peccato, uno sciupio, che un giorno nessuno lo vedrà più: che se ne fa la bellezza della bellezza se nessuno la guarda? Lo so, lo so: sono ragionamenti da narratore. Gli uomini normali se ne infischiano: amano, vivono, corrono nel presente; il narratore è sempre un poco avanti o un poco indietro, è fuori sincro, povero lui. Alla ragazza che mi serve l'insalata di moscardini rispondo col mio miglior sorriso; poi mi stringo nella giacca e mi dico Mangia con calma, non ti strozzare come tuo solito. Dal tavolo accanto si alzano un signore sui sessanta e sua figlia - lo so perché lei lo chiama papà, pur se è una cosa che non si usa più. Subito si siedono altri due, più pari d'età, sui trentacinque. Parlano con quei modi di dire leggeri e inconsistenti che abbiamo sostituito alle parole - si raccontano di una mostra d'arte che è stata un'esperienza a tutto tondo, di un doppio a tennis che hanno giocato alla grande, di un libro piacevolissimo. Per tutte le esperienze, per tutti i miliardi di emozioni che abbiamo, usano lo stesso vocabolario, mi ci gioco la testa. Mi pare che sia, questo nuovo linguaggio intercambiabile, come una sventura, tanto che restare zitti sarebbe preferibile. Mi corteggia come una donna esperta, invece, la speranza che ogni volta che scrivo possano fiorire intrecci differenti, dalla mia povera arte: rami novelli, rovi, gemme di gelsomino. O gardenie finte, rododendri passiti, semi di zucca, se non sarò stato all'altezza. Tutto questo parlare per modi di dire impropri che ci passiamo come un'epidemia, al contrario, avvilisce, ci fa tutti grigi, ci cancella. E alla fine dei conti, per questo uno scrive: per non essere cancellato.

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C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e  a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

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Il numero settecento

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