Non ho mai mangiato né dormito al Gattapone, albergo di Spoleto che affaccia sul ponte delle Torri. Benché abiti a un pugno di chilometri, e benché frequenti Spoleto tre o quattro volte l'anno - per il festival e per altre trattorie, - un soggiorno là dentro l'ho sempre rimandato. Chi ci è entrata di continuo è la mia fantasia, invece. Lo immagino come una stazione di posta prima di una terra selvaggia, una casamatta a difesa di un valico, o il posto adatto a una investigazione di Poirot, coi salottini che ho visto solo in foto, le scale a chiocciola, gli affacci sul baratro. Mi preme all'anima il desiderio di andarci, preferibilmente al crepuscolo, per intonare al contesto la malinconia che sempre mi porto dietro. Quanto ad arrivarci, è bene arrivarci a piedi. Parcheggiare fuori porta, lungo le mura che sul versante meridionale delimitano il parco, e arrampicarsi. Solo così si guarda Spoleto tutta intera: salendo per la mulattiera. Perché a quel modo vai piano e hai tempo di girarti attorno, e fermarti alle vetrine delle dolcerie, alle anticaglie appese fuori dei bric-à-brac per capire se quell'archibugio che usarono alla prima dell'Ernani ti farebbe felice, a riportarlo a casa. La fatica parte dai talloni, al duecentesimo passo, e si irradia per le caviglie, le cosce e il ventre. Ma a quel punto sei arrivato, o quasi. Sei al giardino e puoi riposarti un attimo, sulle panchine sghembe, e leggere il giornale che hai comprato in piazza - beninteso, se hai ricordato di portarti gli occhiali. Quelle aiole sembrano la barba della Rocca, una barba verde, da giovanotto, e io ci ho sperimentato, una domenica, il gusto di pensare la vita di chi abita nelle case dirimpetto, a guardarla parziale dalle finestre. Una volta fatto il film, è quasi sera e il Gattapone si schiude, col suo uscio di luce, le lanterne accese fuori come per l'arrivo di una diligenza di viaggiatori, se fossimo due secoli addietro. Ci sediamo, io e chi è con me, e ordiniamo. Al tavolo accanto mangia e parla di figli coi commensali Pierfrancesco Favino. E io mi accorgo che non sono stato mai così felice, di recente, come di questa felicità cercata.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Buon giorno sig. Francesco , ci è piaciuto molto il pezzo che ha scritto in riferimento al nostro hotel. C'è una breve storia anche sul nostro gruppo di fb " amici del Gattapone " dove se ne ha voglia potrà documentarsi sull'edificio e sulla sua storia passata e presente. Ci farebbe molto piacere qualora passasse da queste parti che ci venisse a trovare , per conoscerci. La saluto cordialmente.
RispondiEliminaPier Giulio Hanke
Buongiorno signor Pier Giulio, mi fa molto piacere che le sia piaciuto il pezzo. In effetti è un piccolo racconto di fantasia. Leggerò la storia dell'hotel e verrò a trovarvi presto, con la mia compagna. Un caro saluto.
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