Quando hai una casa antica certe stanze sono più polverose e abitate di altre. Quelle che danno sul passato, dico, con muri larghi un metro, i bauli dell'isola del tesoro, botole che portano al piano di sotto, al vecchio mobilificio Franceschini, e gli scartafacci dove teneva i conti la mia famiglia prima che venissi al mondo. Là, in una di quelle soffitte, sopra un bancale, sistemarono una valigia verde scuro, Gino e Gastone, e dentro ci stiparono il presepio. Tutte le statuine - le pecore, i magi, due o tre bambinelli, pastori e oche, la capannola, i fili argentati - che ogni tanto, fuori dicembre, mi facevano nostalgia; e come oggi vorrei allungare i giorni che mancano al prossimo Natale - per invecchiare più lentamente - così ieri avrei voluto accorciarla, l'attesa della festa, e abitarci subito. E a parte la felicità che mi tagliava in due a riaprirla ogni fine anno, quella valigia per Gino era una cosa sacra. L'ho scoperto da grande: me lo dissero, Pietro e Rita, quando pensarono che fossi in grado di capire lo scandalo della memoria, la sua crudeltà. Non sapevano ne avrei fatto un mestiere, innocenti loro. C'era tornato dall'Albania, Gino, con quella valigia. Aveva fatto la guerra, lo avevano catturato e internato - gli inglesi - in un campo di lavoro. Aveva conosciuto una ragazza. Probabilmente aveva pensato di non tornare più a casa, di non vedere più Narni, e sua moglie, e sua figlia, e si era innamorato. Sarà l'ultima volta - doveva aver pensato. Dopo l'otto settembre gli avevano detto Sta bene, sei libero e lui avrà guardato quella donna con un nodo in gola grosso come tutta la tristezza degli uomini. Lei gli aveva dato la valigia, e dentro ci aveva messo un mezzo formaggio, otto, dieci papate, panni di ricambio per il viaggio. Gli ci vollero trentasette giorni per rivedere l'Italia. Non raccontò mai la storia intera, ma Gina mangiò la foglia e alla fine la verità venne fuori. La valigia, quella, non la volle buttare ma in casa la moglie a un certo punto non ce la voleva più, così la portò da noi che io non c'ero ancora. Sarà stato il sessantacinque. Mi sa che ci metto tutta la roba del presepio - disse ai miei, giovani che erano, benedetti. E quelli grazie al cielo non trovarono niente da ridire.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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