Ah, se avessero un corpo, le parole, e se ogni volta che le pronunciamo ci cadessero di bocca, e finissero ai nostri piedi, e potessimo raccoglierle, portarle alla pesa pubblica e sapere quanti chili fanno, e poi mostrarle a un esperto - come i funghi raccogliticci, - che scarterebbe quelle velenose: allora sì che sarebbe un altro vivere. Invece, di tutto quel che non ci grava in tasca ci liberiamo a cuor leggero, al contrario delle monete, che non regaliamo ai mendicanti neanche per sbaglio. Per come la vedo io - ma spesso la vedo in modo eccentrico - le parole valgono infinitamente più delle monete. Quel balbettio che è la mia scrittura monca, articolato con indescrivibile fatica, vale ai miei occhi più delle operazioni di borsa che il mio broker mi vorrebbe far fare, e dalle quali per diffidente incompetenza mi tengo alla larga. Eppure è vero: sembra che talora non abbiano consistenza, sembrano fatte di vapore. Ce ne arrivano a tiro centinaia che è bello trattenere e milioni a cui diamo un credito esagerato, tipo quelle della campagna elettorale. Ecco sì, l'esempio è felice, al contrario di me: la campagna elettorale. Un giorno, tra qualche tempo ma neanche tanto, di lunedì, dopo una domenica di elezioni, andranno a contare i voti e troveranno zero. Ci spero con tutto il piccolo cuore che ho. Zero per tutti, perché nessuno ha votato. Urne vuote, scrutatori annoiati, candidati cancellati. La gente sarà andata al mare. Così oscena mi appaiono la politica e le sue marionette che sarebbe la sorte più sacra. Da quel punto si potrebbe ricostruire, ma su altre basi, con presupposti diversi. E le parole tornerebbero utili, purché usate nel modo che meritano: con consapevolezza e rispetto. Zero: ve lo immaginate che ridere? Forse è vero che non votare è un errore, un qualunquismo; ma votare al cospetto di gente tanto ignobile, che usa le parole senza saperne il suono, la densità, la dignità, vuol dire essere complici. Vorrei esercitare il diritto di non scegliere nessuno dei subumani che mi sorridono dai manifesti. Come so che sono a quel modo? Dalle parole che usano: plastificate, casuali, ventriloque; e da quelle che non usano - tutte quelle importanti.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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