Ho amato la scuola come poche altre cose nella vita, persone a parte, ammesso che le persone siano cose. Ho amato la scuola e amavo insegnare perché amavo guardarmi insegnare, era una specie di debolezza da Narciso, spero innocente. Amavo guardarmi insegnare perché ero bravo, uno bisogna pur che lo dica se sa fare una cosa tra le tante che non gli riescono, tra le imprese fallite. Non ero bravo perché sapevo la letteratura meglio degli altri, no, per amor del cielo, ma perché ero abile a scoperchiare l'indifferenza infastidita dei miei ragazzi e a guardarci dentro, io assieme a loro. Dentro a quel piccolo baratro c'erano un mucchio di fraintendimenti, e c'erano tenebre, e la disperazione di chi a diciotto anni già è convinto che non valga la pena studiare, capire, perché tanto non è quello che serve nella vita. Con una corda, io mi calavo nell'abisso e con una lucina fioca, una lampadina sull'elmetto, gettavo pallide ridicole chiazze di chiarore sulle pareti, e a qualcuno quella spedizione giovò. Tornavamo in superficie meno cinici, io e loro, perché anche a me quella impresa faceva bene, imparavo a ridere, a sorridere, a sperare. Mi ricordo che insistevo perché quei figli da quel momento in poi cercassero dentro alla buca fosca quelle cianfrusaglie disordinate che potessero abbellire la loro vita, anche a costo di perdere di vista quel che sarebbe stato più utile. Avevo una dote, tra cento difetti: ero rigoroso. Perfino nello scherzo, nella pedagogia triste dell'ironia salvifica, perfino quattro giorni dopo che mia moglie se n'era andata, riuscii a non tradire l'impegno che avevo preso con loro: esserci sempre, essere sempre coerente, non dire una cosa e farne un'altra. Poi a un certo punto qualcosa si è rotto, hanno vinto la stanchezza, il disincanto, non so. Hanno vinto la burocrazia, le vanterie dei capi d'istituto, e valutare il percorso di un ragazzo è diventato una farsa. Mi sono seduto in disparte, la scuola colle sue schizofrenie ha cominciato a camminare senza di me. La bellezza ha perso, forse è più debole e ha ragioni meno convincenti della necessità di formare uomini tetri, geometrici. Che non sarà neanche divertente ficcare un giorno di questi dentro a un romanzo.
Valerio, avevi ragione, dovevo lasciar andare. Ti ricordi che ne parlavamo? Io trattenevo, aggiustavo, incollavo. Tu dicevi "Sei stato bene con quella ragazza? Basta, non cercarla, non chiamarla". Oppure "Ti manca tuo padre, ne hai nostalgia? No, non darle retta, via, è finita". Dicevi che dovevo conservare la memoria ma senza ogni volta inseguire il passato: io ho sempre pensato che le due cose fossero inseparabili, mi hai aperto gli occhi. Così faccio con le case che ho abitato: non le guardo più le fotografie, che si secchino pure dentro gli armadi. Lasciar correre, lasciare indietro. Un suggerimento sensato, così facendo uno mette a posto il disordine delle stanze, ma si vive meglio in un ambiente in cui tutto è dove deve stare? A questa obiezione facevi spallucce, una finta di corpo - come quando giocavi mezz'ala e io al centro dell'area aspettavo il tuo cross per segnare - e uscivi dal bar. Forse pensavi Che testa di cazzo , ma con tenerezza, perché ma...
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