Forse ha ragione Alessandro Baricco quando dice che le cose passate vanno lasciate andare, senza mettersi a rincorrerle, senza trattenerle a tutti i costi, ma se facessimo davvero così, cosa rimarrebbe da scrivere? I compagni di scuola dell'ottantatré, gli occhiali da sole smarriti a Selinunte, gli amori creduti eterni, il sesso allegro con le amiche occasionali, non sono tutti pretesti narrativi di prim'ordine? Se li lasciassimo perdere, la bocca degli scrittori diventerebbe muta, e io non riuscirei a raccontarvi più niente. Io credo che scrivere - o raccontare a voce, che sono sostanzialmente gesti fratelli anche se uno è premeditato e l'altro innocente - sia la superbia più efferata: ti costringe a bagnare nel mito ogni stupido giorno. Se permettessi alle cose di scappare non ne avrei nostalgia, le scorderei, e la nostalgia è quella fune sottile che tiene insieme ieri e oggi, il momento in cui le cose accadono e l'altro, il momento in cui insistono per diventare parole. In mezzo c'è il dolore, e ci sono l'ansia rapinosa e l'ostinazione a essere felici. Dolore ansia e felicità sono i sentimenti che più ho consumato, nella mia vita, compagni di viaggio estremi, che mal si sopportano. Il primo è metodico, si infila in macchina, sale con me in aereo, mi abbraccia come certi amici invadenti e mi spezza il respiro; l'ansia apparecchia la sua arte una volta venendomi a prendere a scuola, un'altra al risveglio da un sonno agitato; la felicità scoppia come una bomba atomica e fa gli stessi effetti di un petardo, tanto è rapida a scappare via, dissuasa dalla ragione. Non sono mai riuscito a lasciar giù nulla, per questo non sarò mai Alessandro Baricco. Ho trattenuto ogni singolo bacio, perfino il più casto, ogni sorriso per la strada elargitomi da un estraneo, tutti i mattini di quiete dopo le notti di spavento e qualunque casa vuota dove il giorno prima c'era una festa. Tuttavia, a difesa della mia dissennata abitudine, ho una piccola certezza: che non avrei potuto concepire nulla che fosse degno di essere letto, senza tutto quell'armamentario di corbellerie.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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