C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sorta di gratitudine perversa nei suoi confronti e perciò ho bisogno di stargli se non dentro almeno vicino, in qualche modo. Non ero nulla, prima di quello scempio, né un uomo consapevole, né un buon padre e nemmeno un marito grato. Tantomeno uno scrittore decente. Quell'abominio mi ha reso ciò che ora sono contento di essere e a guardare la faccenda proprio con occhi da scrittore direi che è stato l'ultimo atto d'amore di Alessandra per me, il più impareggiabile. La sera noleggiavamo tre biciclette dalle canne arrugginite e sfidando il tetano sfilavamo per le vie frastagliate e lunghe del centro storico, dove incontravi bigiotterie orientali, edicole coi romanzi di Foster Wallace, giostre di lumache che giravano su rotaie e panchine di legno sotto una casa di amanti. Poi lo avrei fatto rifare a Edoardo e a Dorothy quel percorso, in mezzo al primo libro che ho scritto, quando mi scoprii una presunzione da narratore. Andavano a comprare una macedonia di frutta a prezzi da borsa nera da certi frati affaristi. In quella storia c'è un mondo che finisce, come il mio nella stagione dolente. Però poi ne comincia un altro, nella finzione e nella realtà, perché pare sia vero quello che dicono alcuni: che tutto è evoluzione e niente scompare per sempre.
Valerio, avevi ragione, dovevo lasciar andare. Ti ricordi che ne parlavamo? Io trattenevo, aggiustavo, incollavo. Tu dicevi "Sei stato bene con quella ragazza? Basta, non cercarla, non chiamarla". Oppure "Ti manca tuo padre, ne hai nostalgia? No, non darle retta, via, è finita". Dicevi che dovevo conservare la memoria ma senza ogni volta inseguire il passato: io ho sempre pensato che le due cose fossero inseparabili, mi hai aperto gli occhi. Così faccio con le case che ho abitato: non le guardo più le fotografie, che si secchino pure dentro gli armadi. Lasciar correre, lasciare indietro. Un suggerimento sensato, così facendo uno mette a posto il disordine delle stanze, ma si vive meglio in un ambiente in cui tutto è dove deve stare? A questa obiezione facevi spallucce, una finta di corpo - come quando giocavi mezz'ala e io al centro dell'area aspettavo il tuo cross per segnare - e uscivi dal bar. Forse pensavi Che testa di cazzo , ma con tenerezza, perché ma...
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