È faticoso costruirsi una poetica. E non parlo del mio piccolo estro artigianale di mettere in fila parole come vagoncini di un treno. No. Parlo della poetica che ognuno di noi ha dentro di sé, in eredità. La poetica già: permettete che la definisca così? Magari voi la chiamate indole, carattere, e ho sentito qualcheduno, qualche volta, in qualche parte del mondo, che la battezzava fortuna. Qualunque nome le vogliate dare è sempre lei, è quello che siamo, l'impronta della nostra vita. Il fatto che dobbiamo costruircela da soli e che sia già in noi alla nascita è solo apparentemente un paradosso. Ce l'abbiamo ma è tutta smontata, frammentata, come le tessere di un puzzle. Con pazienza, giorno per giorno, ci tocca far apparire la figura, darle un senso compiuto. Per esempio: il pessimismo che ogni tanto prende il sopravvento davanti a progetti complicati è una di queste tessere, la più scura. Chi me l'avrà trasmessa per via genetica? Quella zia di Monterotondo che girava sempre vestita di nero e leggeva gli oroscopi? Quel prozio morto in guerra per una broncopolmonite? E la paura di volare ogni volta che metto piede su un aereo, a chi la devo? A un bisnonno mezzadro che non ha mai sollevato gli occhi dal suo campo? A un fante medievale? A un anacoreta? Tutto arriva a noi dai secoli, dal tempo, tutto si impasta e tutto ci definisce, le malattie e le benattie, la fame d'aria che pativa un antenato cagionevole e il debole per la pizza napoletana di un duca angioino. Il bello è che crediamo di essere unici e invece siamo dei Frankenstein, solo un po' più graziosi. Ma è anche lusinghiero avere addosso tutta quella chimica che arriva dal passato, tutti quei testamenti consegnati da una generazione alla successiva, e tutti quei vizi mischiati assieme a formare gente sempre nuova e sempre vecchia. Però è un lavoro, dicevo, dare un ordine a tutto questo mare di smanie, specie quando quelle negative sono in maggioranza. Allora ci frenano, ci penalizzano: gli entusiasmi, l'audacia, la bellicosità. Mi è capitato, di sentire addosso il peso di cattive abitudini di famiglia. Lì è subentrata la forza d'animo di combattere, per affermare tra tante, se c'è, l'abitudine che solo mia, e che nessuno mi ha mai consegnato.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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