L'ultimo giorno di radio prima delle ferie è sempre un confine. Guardo indietro, alla stagione passata, e vedo le facce degli ospiti di là dal vetro, le interviste, le foto, le risate, le amicizie che nascono, la fretta di finire una diretta per correre a scuola. E scruto avanti la stagione nascente, con l'identica passione, la curiosità, di 14 anni or sono, quando cominciai a sillabare le prime stente parole dentro a un microfono. Stamattina ho attraversato un altro di quei confini - l'ultimo programma: la morte misteriosa di Mozart - e poi sono andato via e ho camminato per Terni, la mia non città. Da narnese vivere qui è una specie di esilio fuori porta, alticcio di nostalgia. I piedi andavano per conto loro, e mi portavano in posti fitti di altra nostalgia - il Classico, la Feltrinelli, piazza San Francesco, la Galleria del Corso - dove mi hanno assalito i fantasmi di un amore perduto per sempre e di un altro lontano troppi chilometri e città. I posti dove si è stati bene con qualcuno dovrebbero scomparire, mangiati da un buco nero, quando quel qualcuno non c'è (più). Non avevo voglia di tornare a casa, mi son lasciato guidare dagli odori, dalle facce, dalle vetrine di saldi, dai matti che chiedono cinquanta centesimi e in cambio ti danno il volantino di una discoteca che ha chiuso da un anno. Ho finito per infilarmi in un negozio di telefonia e benché io non sia malato di tecnologia ho preso un cellulare nuovo - mi dicono si chiami Smartphone - e mi son fatto spiegare come funziona. L'ultima volta era stata più di quattro anni fa, ne prendemmo due simili io e mia moglie, e da allora vado in giro con quello. Di recente ho trovato lo stesso modello sulla bancarella di un robivecchi e ho capito che era il momento di cambiarlo. Cambiare gli oggetti è bello, a volte, soprattutto se ti ricordano un tempo della tua vita orrendo. E così ho fatto. Ora devo imparare a usarlo, mi farò aiutare da mia figlia. Perché la vita nuova si fa beffe della tua anima se non sei pronto a buttarne dolorosamente tutti i pezzi rotti.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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