Mi succede da anni, a questo punto della vita: a primavera inoltrata mi sento perduto. Finiscono tutte le imprese cominciate un autunno fa e solo la promessa che ne verranno altre, ad ottobre, mi tira fuori dai guai. Guai di malinconia, beninteso, di umore strambo, niente che non sia curabile con un po' di mare, di canzoni come si deve e di scritture possenti, ma pur sempre contrattempi di cui farei volentieri a meno. Giugno è un mese complicato, chiude la scuola, devo capire se ho meritato la stima ricevuta e scendere a patti con il sospetto che le mattine in classe, le narrazioni dense e leggere di quegli scrittori per cui ho una devozione infinita, non abbiano avuto poi un gran senso, né gettato semi nelle teste dei miei allievi. E termina un'altra stagione radiofonica, perché il capodanno degli speaker è adesso, il che comporta uno strascico di nostalgia invincibile se solo commetto l'errore di ripensare alle centinaia di ore in diretta, agli ospiti simpatici e antipatici che son passati a trovarmi, alle risate fuori onda e alle cene collettive alla fine delle trasmissioni. L'estate che arriva è il tempo di un'altra creatività, fatta anch'essa di scorribande in moto e viaggi nel passato che diventano parole: nel prossimo romanzo, che a dio piacendo vorrei finalmente imbastire, e nelle disavventure di questo blog, inventato per scherzo e diventato necessario più di un confessionale, con le sue seicento ammissioni di colpevolezza. Di che cosa sono colpevole? Di aver amato e di amare ancora, ma adesso in modo perfetto, senza quasi darlo a vedere il che, lo so, non è necessariamente una buona idea. Dovrei espormi ma forse non sono abbastanza coraggioso, perché l'età non porta con sé più determinazione, e l'amore resta un gioco da ragazzi anche coi capelli bianchi. A conti fatti mi sento fortunato a esser capitato in quest'epoca, dove le persone amiche son più di quelle che detesto: non è una cosa di cui possono vantarsi tutti. La stagione che dopo l'estate ricomincerà, coi suoi progettini preziosi, conto sia zeppa, come quella che muore, di idee nuove e nostalgie narrabili: solo così si consuma fino all'ultimo giorno la tenerezza di vivere.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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