Si alzavano e cominciavano subito a litigare. Appena alzati, non esagero, neanche il tempo di far colazione. Si alzavano e cominciavano a rinfacciarsi a chiare note le rispettive mancanze, li ho sentiti tutte le mattine per quattro anni, il tempo che sono stato loro vicino di pianerottolo. Erano moglie e marito, sui cinquanta, benestanti, colti, senza figli, lei insegnante di filosofia, lui biologo. Litigavano con un apprezzabile senso della misura, non urlavano quasi mai e nello stesso tempo però non abbassavano di certo la voce: erano bravi a stare dentro al campo e a non superare le righe ma là in mezzo se le suonavano di santa ragione. Discutevano di cose importanti: la costruzione del futuro, il rispetto per l'intelligenza altrui, la pianificazione dei rapporti sessuali, e di fratelli e cognati che da una parte e dall'altra, per motivi che non approfondivano mai del tutto, li disprezzavano. Avevano cura delle parole, non le usavano a sproposito, erano battibecchi linguisticamente esatti, ognuno dei due usava il suo vocabolario: lei più volatile, astruso, speculativo, lui scientifico, talora provocatorio e sperimentale. Così facendo dal tramezzo sottile che divideva casa mia dalla loro io capivo tutto - scene e controscene, ragionamenti capillari e riepiloghi sommari - meglio che se l'avessi letto in un libro. Il guaio è che se un estraneo li intuiva con ottima approssimazione, loro due parevano non comprendersi affatto e tutte le mattine, dalle sette alle sette e un quarto, prima di andare al lavoro e incredibilmente in nessun altro momento della giornata, replicarono infinite volte quello spettacolo, a tormento ed estasi delle mie orecchie. Sin dalle prime mattine di quello sfinimento, capii subito chi avesse più ragione e chi più torto, ma non lo dirò. Tutti e due, a quanto sentii, tentavano di modificare la realtà quel tanto che bastava per pretendere che il coniuge ammettesse la sconfitta. Incapaci di immaginare che se fossero venuti a chiederla a me, una interpretazione delle loro incomprensioni, avrei saputo vendergliene una tra le più attendibili.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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