Irene mi disse se le prestavo la macchina, andava e tornava, ma non specificò dove. Avevamo ventidue anni, lei era rigorosa, fatta di quella bellezza non comune che impressiona gli uomini di gusti difficili, non svenevole, una ragazza dagli zigomi forti, a parer mio strepitosa. Ma non era una che potesse piacere a tutti. Le risposi che l'aspettavo sotto casa, c'era un giardino, una panchina, dovevo preparare Storia greca, ne avrei approfittato per studiare un po'. Quando arrivò si appoggiò col suo sedere tornito alla staccionata, mi restituì le chiavi e disse Grazie. Io le dissi Ti devo fare una proposta. Non è un po' troppo per avermi prestato per mezz'ora la macchina? - chiese dispettosa. Scema, non è quello. Ma in fondo ci sei andata vicino. Le rivelai che Ulisse era nei guai, guai di salute, ci rimase male. Andavamo in facoltà insieme, qualche volta, noi tre e altri che si aggregavano se gli girava. Il suo sangue ha qualcosa che non va, deve fare un trapianto di midollo. Mi ha detto di dirtelo. Lo sai che è innamorato perso, no? Irene fece finta di cadere dalle nuvole ma cavolo se lo sapeva. Non lo aveva mai incoraggiato però, era una ragazza a cui piaceva stare da sola, viaggiare senza aver dietro nessuno, frequentare uomini per poco tempo e poi tornare libera. Potresti andar da lui e dirgli che lo ami, e che se fossi una donna che s'innamora di un uomo soltanto sarebbe lui. Potresti anche dirgli che finché non succede preferisci stare per conto tuo. Perché non gli saresti fedele: ecco, grosso modo cosa potresti dirgli. Obiettò che sarebbe stata una bugia, ma che lo avrebbe fatto. Certo che è una bugia, e lo sa anche lui - ammisi. Uno che porta quel cazzo di nome credi che non sappia distinguere un inganno da una verità? Quando due giorni dopo Irene andò a casa di Ulisse lo trovò solo e in buona forma e mi raccontò che dalle parole erano passati ai fatti. Un po' ci speravo - commentai. Che stronzo - rispose divertita. Il nostro amico morì otto mesi dopo, gli furono risparmiate parecchie sofferenze, gli ultimi tempi lo sedavano con la morfina. Al funerale Irene ed io, affranti più dei parenti stretti, pensammo di aver fatto del nostro meglio per farlo entrare nel mito.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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