Qualsiasi città graziosa, nella bufera e nel vento, come un palco di teatro dal fondale livido, diventa per chi ha l'indole di un Gozzano occasione narrativa irripetibile. In quelle circostanze, sfrontato, cammino senza ombrello e galosce perché Alda Merini una volta disse che gli oggetti utili le davano noia, e fingendomi poeta anch'io cerco e rintraccio la coda di una storia, o il suo incominciare, e poi ricostruisco a mia discrezione le parti mancanti. Tredici anni fa accadde a Siracusa, che uscissi dalla stanza d'albergo e mi mettessi a girovagare in t-shirt e ciabattine dopo un temporale. Avevamo cenato sotto il patio di un ristorante di Ortigia, con una specie di mesta allegria che presagiva la fine ma che non ci impedì di essere felici, per quell'istante eterno. Poi Alessandra si addormentò, stanca di terapie, e a me venne voglia di comprarle un regalo: un paio di orecchini, o un bracciale a forma di onda. Nella via che porta alla Spiaggia di Cala Rossa avevo visto una bancarella con le lampadine colorate appese sopra, assieme a venditori di cannoli e cassate grandi il doppio delle nostre. L'ambulante era una ragazza portoghese, forse quella della canzone di Guccini cresciuta, bellissima, dagli occhi tristi. Comprai un paio di pendenti d'argento e poi lei mi disse che era stata alla presentazione del mio libro, nel pomeriggio. Non me la ricordavo, e glielo confessai, e allora misteriosamente aggiunse "So farmi invisibile, quando voglio. Ma sapevo che stasera saresti venuto". Poi come se fosse la cosa più normale del mondo disse "Sono una specie di maga, leggo il futuro nelle carte, se vuoi lo leggo anche a te ma mi sa che non vuoi saperlo". Le confessai che lo conoscevo già e lei rispose "Mi dispiace". Tornai in albergo con l'anima pesante, come fosse diventata improvvisamente di ferro. Portavo di città in città il romanzo di un'apocalisse inventata e la mia apocalisse vera era già cominciata. Quella notte ne ebbi la certezza, del sospetto che mi girava in testa da tempo: scrivere è magnifico ma ha un costo enorme, perché per quanto ti sforzi la gente ti riconosce sotto qualunque camuffamento.
Valerio, avevi ragione, dovevo lasciar andare. Ti ricordi che ne parlavamo? Io trattenevo, aggiustavo, incollavo. Tu dicevi "Sei stato bene con quella ragazza? Basta, non cercarla, non chiamarla". Oppure "Ti manca tuo padre, ne hai nostalgia? No, non darle retta, via, è finita". Dicevi che dovevo conservare la memoria ma senza ogni volta inseguire il passato: io ho sempre pensato che le due cose fossero inseparabili, mi hai aperto gli occhi. Così faccio con le case che ho abitato: non le guardo più le fotografie, che si secchino pure dentro gli armadi. Lasciar correre, lasciare indietro. Un suggerimento sensato, così facendo uno mette a posto il disordine delle stanze, ma si vive meglio in un ambiente in cui tutto è dove deve stare? A questa obiezione facevi spallucce, una finta di corpo - come quando giocavi mezz'ala e io al centro dell'area aspettavo il tuo cross per segnare - e uscivi dal bar. Forse pensavi Che testa di cazzo , ma con tenerezza, perché ma...
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