Questo mio amico che adesso si è fermato ha viaggiato per il mondo tutta la vita. Deserti, città che io ho attraversato solo con la fantasia, lui li ha visti, calpestati, e a ogni ritorno me li ha raccontati: non per vanto, ma pensando che tornassero utili al mio mestiere di narratore. È stato quattordici volte in Africa, quasi altrettante in Sudamerica, tre volte a New York - dove amò una donna creola che per poco non lo convinse a sposarla - e pure l'Europa l'ha esplorata palmo a palmo, per la mia invidia malcelata. Poi ha come deciso che s'era sbagliato a essere per tanto tempo così irrequieto, mi ha detto che è stato un fraintendimento tutta quella smania di alberghi, aeroplani e fusi orari. E che il suo grande sogno era quello di stare fermo in un punto, lavorare dentro un recinto stretto, non indagare il mondo, guardare gli uomini senza la pretesa di capirli. Così ho pensato che stesse mentendo: a se stesso prima che a me. Poi ho visto che gli occhi, i gesti, andavano
Prima di addormentarmi raduno le idee leggere, quelle che il giorno son scappate sulle colline, allegre come sono e piene di vento. Le raduno e spero che una di loro resti tutta la notte, al contrario di certe amiche che vanno via quando l'alba è ancora lontana, lasciandomi stordito di nostalgia. Capita però che una fantasia asprigna si intrufoli tra quelle soavi, le contamini, è successo stanotte, non ho saputo difendermi. La memoria è un film di un milione di giorni e quel giorno di stanotte è una sera d'estate, verso le nove, e perdonatemi se qui il racconto diventa farraginoso, e il tempo uno scioglilingua. Viaggiavamo, io Alessandra e Susanna - che era piccola e stava sdraiata nel sedile di dietro - da Narni verso la città, nella Opel blu che all'epoca aveva fatto appena duemila chilometri. Guidavo piano, come in quella canzone di Concato, e tutto sembrava destinato a durare per sempre. Nostra figlia cantava una canzone di Pacifico, poi la voce le si invischiò di sonno