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L'età della pietra

Guardo come sei sfrontata, come nobiliti ancora quella curva, come da quel cantone ti fai beffa degli uomini e li osservi muta. Guarda come resti identica, ogni anno che vola. Ciao pietra, non avertene a male ma fai un po' rabbia. Ti passo davanti ogni giorno, e ogni giorno perdo un centinaio di capelli, e gli occhi perdono allegria, il viso si riga attorno agli occhi, le spalle si curvano d'un altro grado, le gambe stentano dove ieri andavano sicure e tu sei sempre uguale a quando ero ragazzo, a quando era ragazzo mio padre, a quando mio padre non era nato e mio nonno tornava dalla guerra dopo aver lasciato un figlio in Albania. Vorrei essere te, pietra, vorrei avere la tua struttura, il tuo cuore di sasso, l'anima imperturbabile, e aver sentito pronunciare parole come nostalgia, malinconia, rabbia, dolore, solitudine ma non saperne il senso, solo il suono. Ti hanno guardato tutti coloro che ho amato, coloro che ho detestato e a cui ho promesso battaglia, salvo poi trattar
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Svalvolare

Tra i ricordi dimenticati per infinite stagioni e poi riapparsi in barlume come luci di un temporale c'è la domenica d'inverno, quella dei miei undici anni, verso le cinque di pomeriggio. A quell'ora, con l'aria torbida della sera che si mangiava le case, con le facce rosse e i calzoni schizzati di fango, rincasavamo col pallone e gli skate saltando i gradini a tre a tre per via del Monte e incontravamo le donne che dopo aver rigovernato la cucina si riposavano sulla porta di casa, chiacchierando stridule colle vicine da un cantone all'altro. Tra noi c'era chi si fermava a mezza strada - sua madre lo aspettava perché le desse una mano per la cena - e chi tirava lungo, col sudore che gli si freddava addosso e alla notte avrebbe smaniato di febbre. Io calavo sempre inquieto perché non sapevo di che umore avrei trovato mio padre, se mi avrebbe sorriso, carezzato la testa e se avremmo guardato insieme i gol o se invece sarebbe rimasto tutto il tempo in disparte, tor

Il pranzo della domenica

Adesso mangio da solo, mangio quando ho fame, senza orario, senza apparecchiare, evito solo di mangiare schifezze e qualche volta m'azzardo perfino a cucinare. Mangio guardando la partita, mangio leggendo, mangio in piedi, mangio e scrivo, mangio di fretta e ingoio aria, e poi digerisco male. Eppure un tempo non era così, un tempo il pranzo e la cena avevano delle regole precise, guai a violarle, era concesso non sedersi a tavola giusto se stavi per morire, per un'indigestione o una tonsillite feroce. Il pranzo della domenica, specialmente lui, era sacro. Venti volte l'anno, forse trenta, era un pranzo collettivo, da famiglia allargata, un raduno degli alpini senza l'inconveniente della grappa. Quando cominciava novembre e dopo che i morti erano tornati nel loro mondo, il pranzo della domenica serviva per pianificare il Natale. Ai vecchi della famiglia - vecchi: avevano sessant'anni nemmeno - piaceva far le cose per tempo: quante dosi di pampepato, quest'anno? q

Loro

Rincaso per una volta a mezzanotte, i vivi stanno dormendo, i morti mi aspettano allegri seduti a tavola, nella stanza del camino. Sono entrati chi dallo spiraglio di una finestra, chi da sotto il pesante portone, chi dalla cappa della cucina, chi attraverso un muro maestro, come canone impone. Ci sono tutti, hanno cucinato ogni ben di dio, come una volta, i piatti di portata son quelli coi fiorellini viola ai bordi, vanno e vengono dalle altre stanze con la leggerezza di chi non ha più pesi sulle spalle, scendono e salgono i tre scalini saltellando, la casa s'è riempita di profumi d'arrosto e pampepato. Abbiamo cominciato perché non arrivavi mai - mi dice Mara - e sai che tuo nonno ci tiene a mangiare a orario. Avete fatto bene - rispondo io - e sono un po' turbato ma nemmeno tanto. Loro, in questa stanza, vestiti esattamente come li ricordo, sono sempre stati la mia più segreta speranza: quanto ne ho scritto, di questo sogno misterioso. Gastone riempie il piatto di pasta

Letargo

Mi rincresce di non essere un orso perché se lo fossi potrei andarmene in letargo assieme ai miei cari fantasmi nella casa in collina. Certe volte il mondo mi viene a noia, fa troppo rumore, coi suoi studenti universitari e i loro mercoledì di baccano, coi talk show e le campagne elettorali, coi raduni di motociclette e gli urletti dei tennisti, e così staccherei da tutto per una stagione, farei una grossa spesa e non mi vedreste in giro fino a primavera. A quel punto dovrei arredare la vita come si arreda un monolocale, con la sobrietà di un'indole poco pretenziosa che si fa andar bene anche le cose rimediate: le coperte vecchie, purché pulite, per cominciare sono perfette. Avrei bisogno di stare al caldo perché dove vado non ci sono termosifoni, solo un camino che non tira come dovrebbe e una stufa elettrica che ogni tanto frizza e scintilla, mettendomi sul chi vive. Ah che bella la campagna muta a confronto di queste città virulente di schiamazzo, che pace la sera quando scende

Il romanzo delle ore morte

Tutte queste ore morte un giorno le metterò insieme e ne farò un romanzo: il romanzo delle ore morte, voglio chiamarlo, perché non ci siano dubbi. Magari capiterà che le trovi attraenti quanto oggi mi ripugnano e allora avranno avuto un senso. Adesso no, adesso sono un libro scritto in tedesco, un film di Nolan, una manipolazione del tempo. Se provo a contare quante ne ho abitate da quando ne ho percezione viene un numero spropositato che mi suggerisce cosa avrei potuto fare, cosa sarei potuto diventare se non fossi stato con le mani in mano a compatirmi. Eppure ho viaggiato a dismisura, scritto ferocemente, amato talora con poca innocenza, e ricordo solo l'inconcludenza dei giorni vuoti, senza un sussulto. Il tedio ci si attacca più dei successi, che a un certo punto vivono per conto loro e non fanno più parte di te. La gente cosa vede? Un libro, cento parole spalmate su Facebook, foto di gioventù, il prodotto finito. Prima c'è la disperazione, che non ha mercato se non abbell

Al posto mio

Voi no? Io sì, certe volte ho paura. Ho paura del sonno, degli uccelli, di non saper vivere. Quando ho paura devo stancarmi, camminare, oppure guidare fino a che le gambe non implorano pietà, finché il mare che incontro non è più il Tirreno ma il mare greco che schiuma sopra le triremi inabissate. Lì, lontano dalle stronzate quotidiane, torno coraggioso e nel coraggio ricordo, perché anche le idee ridiventano chiare, possenti. Così mi accorgo di cose che nel brodo dei giorni mi sfuggono: la derisione dei medici, per esempio, che è un nuovo approccio terapeutico, ha sostituito il cinismo, ora i dottori ti prendono per il culo quando ti curano, fateci caso: un dente o un cancro fa lo stesso. Come so difendermi? Come posso? Mi rigiro tra le mani la domanda e intanto cerco quel ristorantino dove stemmo bene insieme, benché fossimo tutti e due di altri, un secolo fa. Non lo trovo, giro a vuoto poi eccolo là ma è in sfacelo: macerie, assi di traverso sulla porta, un senso di disfacimento, co