Certi giorni neanche le canzoni, neanche i libri che mi hanno ucciso, possono niente: la tristezza imperversa. Dentro a quei giorni sono vinto, non mi viene nessun desiderio, nessuna tentazione, devo solo aspettare che passino o che un'amica mi chiami per una rimpatriata priva di complicazioni sentimentali. Sono i giorni in cui resto fermo, non cucino, non canto, leggo tantissimo e invecchio più lentamente. Sembra così che la tristezza sia improduttiva e invece serve a ricaricarmi, o non potrei una volta che l'ho sconfitta ricominciare a vivere. Mi capitava anche da ragazzo, non è un accidente di adesso. Stavo tutta la notte seduto sul davanzale, il vuoto sotto, quando mia madre mi credeva già addormentato. Vedevo il buio che cadeva dal calamaio di dio come se lui ci avesse inciampato, e la china che sbrodolava sulla montagna, e i dieci metri dalla strada che mi tentavano se mio padre m'aveva umiliato: che morissi lasciandogli un senso di colpa incurabile. L'unica idea decente che mi è venuta nelle stagioni tristi è che a furia di aspettare non avrei fatto altro, per tutta la vita. Perché non esiste un'altra vita che comincia dove finisce la prima, che inizia appena hai messo a posto quelle due o tre faccende che ora non ti lasciano respirare. Non funziona così, non serve a niente dire Tra sei mesi vedrai di cosa sono capace. Funziona invece come nelle battaglie campali, devi infilare la baionetta e avanzare. Il guaio è che a volte sei stanco, impaurito, trafitto dalle parestesie, e tutto quello che fai e che scrivi ti sembra ignobile. Non ami più, non te ne accorgi? Lasci che le cose accadano, che la gente viaggi, partorisca progetti, senza di te. Magari ho amato troppo - ti racconti - e l'amore è finito, come una vaschetta di gelato. Oppure non hai amato mai, ti sei sempre soltanto illuso, e non puoi cominciare adesso, se non sai nemmeno come si fa.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
Ciao Francesco, potrei averla scritta io, per quanto mi sono immedesimata.
RispondiEliminaSai sempre cogliere gli stati d'animo, che poi sai, che non sono solo tuoi.
Grazie, mi fa piacere. Perdonami però se non mi ricordo chi sei, sul commento c'è scritto Anonimo. Comunque sia, un caro saluto.
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