A Tarquinia c'è un albergo nascosto in mezzo alla pineta, non affaccia al mare, è l'albergo dei nostalgici, degli amanti e delle canzoni d'autore. Tira sempre vento quando ci vado, ma è il vento leggero del Tirreno che volta le pagine del libro che ho in testa assieme ai ricordi della giovinezza, mai finita e mai rinnegata. In una primavera di vent'anni fa, una primavera anch'essa di vento, ci arrivammo per caso, tu ed io, ragazza amorevole di un'altra vita. Dal litorale non si vede e se non sai che c'è è difficile trovarlo, e noi cercavamo una camera col balcone sulla spiaggia, per cantare un'altra volta il caso, divinità innamorata delle onde azzurre e dei fortunali. Cenammo invece a bordo piscina perché l'hotel segreto ci rapì, e il mare restò una voce di là dalla strada, una prospettiva per l'indomani, l'abisso dentro cui stavamo per cadere dopo quella notte di soprassalti. Ti presi e poi tu prendesti me e alla fine la stanchezza ci rese sazi ma non ancora esausti, tanto che uscimmo nella notte a camminare. C'erano macchine parcheggiate sui marciapiedi, e altri insonni a bere la tenebra, come noi felici e increduli di tanta munificenza. Credevamo il destino lo fosse, munifico, non avevamo considerato che in realtà è un usuraio, concede solo per avere indietro dieci volte tanto. Ma quella notte niente era imperfetto, niente era un presagio e le tue labbra non si incurvarono alla tristezza, come altre volte era capitato. In fondo alla città c'era un circo smontato, il tendone per terra con le stelle dipinte e le tigri narcotizzate nelle gabbie. Una fata marina passò tra le tue ciglia, che divennero d'oro, o forse fu il riflesso della luna, o la mia immaginazione che adesso trasforma in poesia quel che non lo è mai stato. Parlammo d'amore, pronunciammo parole d'amore, progettammo altri anni d'amore e scoprimmo che ci sarebbe piaciuto invecchiare insieme, che come idea non era proprio l'ultima di quelle per cui combattere. Arrivammo dove avevano tirato in secca una barca e poi ci addormentammo sulle sdraio del bagno Maristella, fino a che, quasi, non arrivò l'alba.
Valerio, avevi ragione, dovevo lasciar andare. Ti ricordi che ne parlavamo? Io trattenevo, aggiustavo, incollavo. Tu dicevi "Sei stato bene con quella ragazza? Basta, non cercarla, non chiamarla". Oppure "Ti manca tuo padre, ne hai nostalgia? No, non darle retta, via, è finita". Dicevi che dovevo conservare la memoria ma senza ogni volta inseguire il passato: io ho sempre pensato che le due cose fossero inseparabili, mi hai aperto gli occhi. Così faccio con le case che ho abitato: non le guardo più le fotografie, che si secchino pure dentro gli armadi. Lasciar correre, lasciare indietro. Un suggerimento sensato, così facendo uno mette a posto il disordine delle stanze, ma si vive meglio in un ambiente in cui tutto è dove deve stare? A questa obiezione facevi spallucce, una finta di corpo - come quando giocavi mezz'ala e io al centro dell'area aspettavo il tuo cross per segnare - e uscivi dal bar. Forse pensavi Che testa di cazzo , ma con tenerezza, perché ma...
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