Naturalmente non si chiama Romano ma la tentazione di giocare col titolo era troppo forte e così ho ceduto. Si chiama in un altro modo, che non dirò, ma se vi va potete chiamarlo Numa, o Galeazzo, o come diavolo preferite. Quel che mi preme raccontare è che è un camminatore. Un grande camminatore, un camminatore instancabile, e un uomo più vecchio di me. Cammina sempre con la stessa filosofica cadenza di chi non ha fretta e non ha ambizioni da corteggiare perché sa che le ambizioni fan venire la pressione alta. Mette un piede davanti all'altro guardando l'asfalto: se c'è un craterino, una buca, un avvallamento, ci passa coscienziosamente attorno, e una volta che li ha superati si gira su se stesso, osserva il pericolo scampato, incassa la testa nelle spalle e riprende il viaggio. Veste giacche di poco pregio cui mancano spesso dei bottoni, e ora che fa freddo non può allacciarle. Così alza il bavero e corregge il caffè, come in quella canzone di De Gregori, ma quando nessuno lo vede perché bere gli han detto che non deve, che gli fa male. Oltre a camminare avanti e indietro tutto il giorno, sempre per lo stesso pezzo di strada, schivando le macchine, fermandosi ogni tanto alla frutteria di via Cardoli a comprare bietole e rape, lui osserva. Osserva, guarda, scruta, indaga. Ma in modo affatto discreto, come fosse un fantasma, uno che non darebbe fastidio agli altri neanche se lo volesse. Guardo la ferocia degli uomini, il loro volersi superare in ogni gesto della vita - mi ha confidato una volta. Ero anch'io insolitamente rilassato, non andavo di fretta, mi sono fermato di buon grado. Mi disse che per come la vedeva lui, la costante degli esseri umani è la competizione. In qualunque frangente. Tentiamo sempre di superare qualcuno, di fare più presto di qualcuno, di risplendere più luminosi. Usò proprio quella parola: luminosi. Romano parla forbito, ha studiato filosofia e ha letto tutta la Recherche e io nemmeno la metà, ma non ne fa vanto. Quando gli ho chiesto di spiegarsi meglio, ha precisato: Non vedi come cercano tutti di fregarsi un parcheggio? Di saltare la fila alle Poste? Di avere l'ultima parola in una discussione? Tutta roba che non fa per me, mi chiamo fuori. E a quel punto io, che non riesco ancora a essere tanto evoluto, me ne sono tornato a casa con la coda tra le gambe.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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