Naturalmente non si chiama Romano ma la tentazione di giocare col titolo era troppo forte e così ho ceduto. Si chiama in un altro modo, che non dirò, ma se vi va potete chiamarlo Numa, o Galeazzo, o come diavolo preferite. Quel che mi preme raccontare è che è un camminatore. Un grande camminatore, un camminatore instancabile, e un uomo più vecchio di me. Cammina sempre con la stessa filosofica cadenza di chi non ha fretta e non ha ambizioni da corteggiare perché sa che le ambizioni fan venire la pressione alta. Mette un piede davanti all'altro guardando l'asfalto: se c'è un craterino, una buca, un avvallamento, ci passa coscienziosamente attorno, e una volta che li ha superati si gira su se stesso, osserva il pericolo scampato, incassa la testa nelle spalle e riprende il viaggio. Veste giacche di poco pregio cui mancano spesso dei bottoni, e ora che fa freddo non può allacciarle. Così alza il bavero e corregge il caffè, come in quella canzone di De Gregori, ma quando nessuno lo vede perché bere gli han detto che non deve, che gli fa male. Oltre a camminare avanti e indietro tutto il giorno, sempre per lo stesso pezzo di strada, schivando le macchine, fermandosi ogni tanto alla frutteria di via Cardoli a comprare bietole e rape, lui osserva. Osserva, guarda, scruta, indaga. Ma in modo affatto discreto, come fosse un fantasma, uno che non darebbe fastidio agli altri neanche se lo volesse. Guardo la ferocia degli uomini, il loro volersi superare in ogni gesto della vita - mi ha confidato una volta. Ero anch'io insolitamente rilassato, non andavo di fretta, mi sono fermato di buon grado. Mi disse che per come la vedeva lui, la costante degli esseri umani è la competizione. In qualunque frangente. Tentiamo sempre di superare qualcuno, di fare più presto di qualcuno, di risplendere più luminosi. Usò proprio quella parola: luminosi. Romano parla forbito, ha studiato filosofia e ha letto tutta la Recherche e io nemmeno la metà, ma non ne fa vanto. Quando gli ho chiesto di spiegarsi meglio, ha precisato: Non vedi come cercano tutti di fregarsi un parcheggio? Di saltare la fila alle Poste? Di avere l'ultima parola in una discussione? Tutta roba che non fa per me, mi chiamo fuori. E a quel punto io, che non riesco ancora a essere tanto evoluto, me ne sono tornato a casa con la coda tra le gambe.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver commentato il mio post