La prima volta che dormimmo in macchina, dormimmo in macchina dopo un terremoto. Io avevo sette anni o al massimo otto: mi ricordo che m'allungai sul sedile posteriore della Dyane senza dover piegare i ginocchi mentre Clara dormì seduta davanti, col fazzolettone in testa per via delle zanzare. Era la fine dell'estate, e Gastone pensò bene di sistemarsi dietro la macchina, sdraiato per terra sopra una copertaccia, e mica chiuse occhio, ma gli piaceva quel fatto insolito perché - a patto che non si rompesse il freno a mano - avrebbe poi potuto raccontarlo ai suoi amici musicisti, a cui piacevano solo storie di eccentricità. Non lo so se la parte della memoria in cui vedo la macchina parcheggiata in salita è una mia rielaborazione inconsapevole, ma giurerei che mio padre e mio zio l'avevano messa a quel modo, vai a sapere perché: forse una leggerezza giovanile. Stavamo in un posto che Gastone aveva battezzato Il Podericchio - un fazzoletto di terra tutto gobbe e bitorzoli delimitato da una recinzione di plastica verde, dove lui e la sua fidanzata progettavano di costruir casa - e che col buio aveva una sua grazia lugubre anche in agosto. Pietro e Rita passarono la notte nell'altra macchina, che doveva essere un'Alfetta amaranto comprata di seconda mano, a far parole crociate. Verso le due sul cofano dell'Alfetta si posò un barbagianni e mia madre gridò così forte che svegliò tutta la campagna. L'avventura era cominciata alle sei di pomeriggio. Un Wooon cupo come il suono di un aulos e tutta via della Pigna aveva preso a scivolare al modo di un pattinatore alle prime armi. Così avevamo deciso di dormire fuori e naturalmente il terremoto ricominciò non appena rientrammo in casa, la mattina seguente. Di tutta quella allegra baraonda ricordo l'interruzione dell'abitudine, che mi fece accorgere di quanto sia necessario ogni tanto spezzare la routine come un cracker; e il senso di famiglia unita che poche altre volte come quella notte ho percepito. Talora ci vuole una calamità per farci apparire meno estranei quelli che abbiamo in casa.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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