La prima volta che dormimmo in macchina, dormimmo in macchina dopo un terremoto. Io avevo sette anni o al massimo otto: mi ricordo che m'allungai sul sedile posteriore della Dyane senza dover piegare i ginocchi mentre Clara dormì seduta davanti, col fazzolettone in testa per via delle zanzare. Era la fine dell'estate, e Gastone pensò bene di sistemarsi dietro la macchina, sdraiato per terra sopra una copertaccia, e mica chiuse occhio, ma gli piaceva quel fatto insolito perché - a patto che non si rompesse il freno a mano - avrebbe poi potuto raccontarlo ai suoi amici musicisti, a cui piacevano solo storie di eccentricità. Non lo so se la parte della memoria in cui vedo la macchina parcheggiata in salita è una mia rielaborazione inconsapevole, ma giurerei che mio padre e mio zio l'avevano messa a quel modo, vai a sapere perché: forse una leggerezza giovanile. Stavamo in un posto che Gastone aveva battezzato Il Podericchio - un fazzoletto di terra tutto gobbe e bitorzoli delimitato da una recinzione di plastica verde, dove lui e la sua fidanzata progettavano di costruir casa - e che col buio aveva una sua grazia lugubre anche in agosto. Pietro e Rita passarono la notte nell'altra macchina, che doveva essere un'Alfetta amaranto comprata di seconda mano, a far parole crociate. Verso le due sul cofano dell'Alfetta si posò un barbagianni e mia madre gridò così forte che svegliò tutta la campagna. L'avventura era cominciata alle sei di pomeriggio. Un Wooon cupo come il suono di un aulos e tutta via della Pigna aveva preso a scivolare al modo di un pattinatore alle prime armi. Così avevamo deciso di dormire fuori e naturalmente il terremoto ricominciò non appena rientrammo in casa, la mattina seguente. Di tutta quella allegra baraonda ricordo l'interruzione dell'abitudine, che mi fece accorgere di quanto sia necessario ogni tanto spezzare la routine come un cracker; e il senso di famiglia unita che poche altre volte come quella notte ho percepito. Talora ci vuole una calamità per farci apparire meno estranei quelli che abbiamo in casa.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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