Passa ai contenuti principali

Resto qua

Fosse per me saluterei tutti con un inchino e me ne andrei in collina. Stasera stessa, dico, tra un po': il tempo di fare una spesa grossa e riempire la macchina di libri tachipirine e film da vedere di notte. Lassù, tra le brume novembrine, non mi farebbe schifo avere in tasca una scacciacani, per far paura ai cinghiali quando grufolano nella radura senza sparargli sul serio. Non mi servirebbe molto altro, a patto che un'amica che so io mi venisse a trovare di tanto in tanto - secondo i suoi capricci, beninteso, non certo i miei, la qual cosa sarebbe perfino più divertente perché imprevedibile. Su quella gobba dell'Appennino, nell'aria celeste che non sa di fumi industriali, dove i sentieri francescani tagliano le piste del turismo slow e ne vien fuori un garbuglio che pure ha un suo senso, ci ho aspettato mia figlia che tornava dalla città, le sere che eravamo sfollati non per una guerra ma per una vita che stava cambiando, e dovemmo tutti isolarci un momento per capirla meglio. E prima, da ragazzo e poi da uomo irriconoscente, da queste parti ci ho esibito tutta la felicità possibile, in pomeriggi che s'allungavano fino a tingersi dell'ombra che scendeva dal cielo, a coprire tutta l'innocente oscenità che io e una qualche altra amica - cui parlavo di romanzi che non conosceva - eravamo stati. Ho fatto il teatrante tutta la vita, ho rappresentato me stesso a tutti coloro che lo desideravano, e a nessuno che non ne fosse curioso. Ora ho il desiderio di passarci una stagione - l'autunno. Desiderio che non esaudirò. Perché sarebbe una resa dei conti potenzialmente letale stare tanto tempo là dove, nonostante abbia recitato, per paradosso mi son tolto tutte le maschere che avevo, e sono stato quello che avrei sempre voluto essere: un uomo libero. Libero di assecondare la mia indole, che è irrequieta e stufarella, libero di essere prigioniero dei ricordi senza che nessuno storca il naso. Ragion per cui, dal momento che la libertà è un lusso che non posso concedermi, resto qua. 

Commenti

Post popolari in questo blog

Niente per sempre

C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e  a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...

Primavera di vento

A Tarquinia c'è un albergo nascosto in mezzo alla pineta, non affaccia al mare, è l'albergo dei nostalgici, degli amanti e delle canzoni d'autore. Tira sempre vento quando ci vado, ma è il vento leggero del Tirreno che volta le pagine del libro che ho in testa assieme ai ricordi della giovinezza, mai finita e mai rinnegata. In una primavera di vent'anni fa, una primavera anch'essa di vento, ci arrivammo per caso, tu ed io, ragazza amorevole di un'altra vita. Dal litorale non si vede e se non sai che c'è è difficile trovarlo, e noi cercavamo una camera col balcone sulla spiaggia, per cantare un'altra volta il caso, divinità innamorata delle onde azzurre e dei fortunali. Cenammo invece a bordo piscina perché l'hotel segreto ci rapì, e il mare restò una voce di là dalla strada, una prospettiva per l'indomani, l'abisso dentro cui stavamo per cadere dopo quella notte di soprassalti. Ti presi e poi tu prendesti me e alla fine la stanchezza ci rese ...

Il numero settecento

Mi sono perso. Ho girato a vuoto per certe colline che credevo familiari, il gps non prendeva, nei paraggi nessuno a cui chiedere la strada. Cercavo una certa locanda che in una canzone del settantatré viene cantata come un posto di frontiera,  ero certo esistesse davvero, volevo vedere com'è fatta, che gente la frequenta. Quando stavo per darmi per vinto l'ho trovata. I posti come questo, di confine, io li amo, li eleggo a covili di creatività perché là dentro passano mille venti, centomila viaggiatori, e ogni vento e ognuno di quei viaggiatori ha una storia da raccontare, e a intrecciarle ne viene fuori una inedita che ha in sé tutte le intonazioni delle altre ma una stravaganza solamente sua. Quando finisce il giorno in quegli avamposti lontani arriva il silenzio, le voci smettono di bisticciarsi e io posso abitare una veranda con vista sui campi di girasole come fossi in Alabama, e provare a confessare in libertà quello che ho in testa.  Eccola, l'eucarestia  della sc...