Tra le attese più lunghe dell'infanzia c'è quella del Natale, giorno in cui si festeggia quel che è accaduto in tutt'altro periodo dell'anno e che dovremmo far accadere da oggi in poi per tutti i giorni che ci restano da vivere. Ho raccontato quel sentimento quand'era incollato ai miei sette anni e poi che ne ho avuti quattordici già s'era trasformato in qualcosa di differente. Solo la durata era la stessa: dalla fine di novembre mi assaliva un languore la cui natura non riuscivo a far capire a nessuno, e che ai tempi del ginnasio addolciva il mio umore ispido insaporendolo di speranza. Che quella speranza poi si sia a sua volta trasformata in una vita beffarda, eccentrica e raccontata per legittima difesa - perché condividerla su altre spalle mi ha permesso di alleggerirne il peso - è solo un altro scherzo del destino: io volevo un'esistenza anonima, impiegatizia, in cui tutto quello che c'era mi sembrasse bastevole. E invece fu proprio all'altezza di quella adolescenza che presi a indagare i sensi nascosti delle cose, a cercarli nelle canzoni, tra i versi scritti sulle buste degli ellepì e perfino tra una parola e l'altra, in quello stacco bianco dove i significati si annidano ostinati e dove il baratro che si apre tra un aggettivo sostantivato e un verbo riflessivo può farti precipitare in un abisso di intuizioni dolorose. Comprai un disco di canzoni di Natale, un giorno, tanto per fare una cosa: era la fine dell'autunno, come adesso, le ore passavano vuote tanto da infastidirmi e allora decisi di riempirle di un gesto qualunque. Lo misi sul piatto e cominciò a girare, sfrigolando sotto la puntina. Una canzone, due canzoni, tre. Brani colti, melodie dotate di grazia, tutt'altro che elementari. Senza che potessi impedirglielo, mi rapirono. Il bar della stazione la mattina di capodanno, la fattoria che sembra un presepe sotto le stelle, Carla e Alberto all'uscita della messa di mezzanotte, quando comincia a nevicare, gli operai dell'industria di fosfati che si radunano in piazza, compunti, in attesa del Cristo. Pace a voi, uomini, fabbriche di favole - diceva uno di quei canti. Bugie, nient'altro che bugie. Però le credetti vere, sciocco che non fui altro. Da allora, è di quelle che vivo: me ne cibo a volontà e le racconto a mia volta, talora senza ritegno. Perché ho capito che sono un ottimo rimedio contro il cinismo che abbuia gli orizzonti.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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