Eccoli di nuovo, quei giorni in plotone che vorrei congedare per sempre dalla mia vita, cui strapperei dalle spalline i gradi per poi deferirli alla corte marziale. Arrivano in quattro o cinque al modo di soldati ubriachi, sfilano uno dopo l'altro barcollanti, insubordinati come quelli di Mash, e mi tentano al nulla, mi mostrano l'insensatezza di quello che faccio e provano a convincermi a mollare ogni impresa. Succede che siano incoraggiati dalla fatica disumana che talora sostengo per un risultato invisibile, dal tempo dedicato a un sogno che poi nasce storpio, dal sospetto di ricevere meno di quel che mi spetterebbe, in questo mestiere d'artista senza padri e padrini che pur non rinnego di aver scelto. Mi chiedo certe volte se non abbiano ragione da vendere, col loro pacifismo esibito. Se davvero, deponendo le armi, non troverei quella felicità che cerco combattendo, e che le mie parole conquistano spesso ma per un solo istante: poi sfugge tra gli occhielli delle a e delle p, finge di cadere nella buca di un'aferesi e dispettosa va a sistemarsi altrove. Se smettessi per sempre di scrivere - oggi, in questo preciso momento - avrei però almeno un desiderio: capire se ne è valsa la pena, di raccontare tante storie in tante lingue differenti. E per cominciare ricorderei quella ragazza che a Siracusa mi disse di avere il cancro e che il mio romanzo le aveva fatto passare in leggerezza le sedute di chemio; oppure quell'altra, a Lucca, che mi si avvicinò timida e mi rivelò il suo nome, perché voleva che lo sapessi, ma poi mi chiese di farle una dedica con un nome diverso, perché il suo uomo era geloso, e l'avrebbe riempita di botte; e infine quel tale che, recensendomi anonimo in rete, mi ricoprì di insulti, derise mia moglie morta e si augurò per il bene della letteratura italiana che smettessi per sempre di pubblicare. Così facendo, capirei probabilmente che scrivere non è competizione, non è arrivare da qualche parte, ma camminare. Camminare guardandosi attorno, e azzardare un senso, di quel che si vede e di quel che non si vede. Per cui sì: il grande successo, centomila copie, un film da un mio libro. Mentirei se dicessi che non mi piacerebbe. Ma stiamo parlando di un'altra questione, più pratica: una cosa che ha a che fare con il difetto dell'ambizione. Scrivere per conforto invece, e per far infuriare i deficienti, è una vita diversa. Non ho ancora capito se bastevole ai miei desideri.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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