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Vestire a festa

Una sera ogni trecento - e senza preavviso - a mio padre saltava di chiuder prima la tabaccheria e in barba ai ritardatari, che restavano senza fumo per il dopocena, prendeva ad arrampicarsi per via della Pigna, in cerca di ossigeno. Se mi guardava e diceva Andiamo era segno che mi voleva con lui; se al contrario calcava il cappello e scompariva all'improvviso voleva dire che ero io a dover calare la serranda, e che ci saremmo rivisti a casa, non appena gli fosse passata quella smania di libertà. Quando mi chiedeva di seguirlo era perché gli andava di parlare, raccontare. Una volta abbiam preso per via Franceschi Ferrucci e là nei pressi c'era un appartamento dove nel sessantuno facevano le prove del Candelaio, lui e la sua combriccola di amici artisti, e poi Giuseppe Manini li portò a debuttare al Teatro delle Muse, a Roma, e Pietro disse che era la rivincita di Giordano Bruno contro quelli che lo avevano bruciato vivo. Un'altra volta, invasi dalla primavera, scendemmo fino a sant'Agostino - dove per il ghiribizzo del caso anch'io ho recitato, l'anno scorso, preso alla sprovvista, assieme a Filippo Nigro - e dai finestroni che danno sulla valle del Nera Pietro mi indicò il posto dove stavano sfollati, che lui era ragazzino e i tedeschi bombardavano a tutto spiano, e un mattino d'aprile ricordava una contadina a cui avevan preso fuoco i capelli, che nemmeno strillava, e quando riuscirono a spegner le fiamme era rimasta con mezza testa soltanto. Sono sicuro infine che una sera arrivammo alla Rocca, doveva essere aprile anche lì, perché ricordo un'euforia da ora legale. Passava gli olivi una tramontana tiepida e più verso il Bastione alzava polvere come un attaccabrighe, torcigliando le corde delle altalene. Lassù Pietro smise di rammaricarsi, di vestire a festa il passato. Mi disse qualcosa come Non farti troppo nostalgico ma più perché s'era accorto che già lo stavo diventando, che per avvertimento. 

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Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra

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