L'estate scorsa sul lungomare di Livorno ho visto un uomo che prendeva a calci un cane. L'ho visto da lontano, mi sono avvicinato e non ho avuto il coraggio di dirgli niente. Invece, sono sceso in spiaggia sotto il sole che urlava, dopo aver fotografato la bandiera al vento di Giorgio Caproni e tentato di recuperare dalla memoria uno qualsiasi dei suoi versi, per scacciare la vergogna: Se non dovessi tornare/ sappiate che non sono mai partito... E poi? E poi come faceva? Allo stabilimento ho noleggiato un ombrellone e una sdraio, avevo appresso un vecchio libro di Sepulveda e per quanto fosse leggero non capivo quel che voleva raccontarmi: la testa era altrove, alla violenza vana, alla mia pusillanimità. In mezz'ora arrivò la ragazza che aspettavo, andammo a cena: un ristorante tra le dune, un piatto di gamberi, una bottiglia di vin dolce; flirtammo a tavola e poi al porticciolo, con la luna che sopra le onde sembrava quella dei film di Melies. La mattina successiva, in albergo, a mangiar la colazione abbondante degli alberghi, a cercar di capire come potesse quella donna sospendermi il tumulto delle idee e tutte le paure senza farne vanto, quella nuvola gonfia è ricomparsa, e voleva dar battaglia, voleva piovere. Ho tentato di scenderci a patti, di contrattare, ho implorato che mi lasciasse intera l'immortalità del tempo breve, ma non ha voluto accontentarmi. Mi ha costretto a ragionare sull'ingiustizia, sulle colpe mai espiate, sui delitti di chi la fa franca. Lo so che potrebbe esser così, che non solo chi dichiara una guerra, chi alza il primo muro di un lager, può darsi non debba mai risponderne a nessuno; ma anche chi uccide di botte un cane, i pavidi che si voltano quando succede, e tutti quelli che per natura, senza che si sappia, fanno il dolore degli altri, la disperazione. Ma oggi non voglio scriverne - le ho urlato in silenzio: - che tu sia dannata, lasciami in pace, lasciami qui a far l'amore, e togliti dal sole, e così se n'è andata, o ha fatto il gesto. E poi si è fermata sulla via del ritorno, ad aspettarmi.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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