Il mio balcone dà sugli alberi: una palizzata che mi scherma dalla strada, filtra la luce e incoraggia la malinconia. Qualche volta ci esco a fumare - le sere in cui le stagioni cambiano, e il primo rinfresco lenisce l'estate o una repentina primavera spaventa febbraio - ma la sigaretta non la respiro, è più che altro un gesto, una posa che mi aiuta a districare i grovigli e a guardare il cielo con più assegnamento. Il fumo schiara la notte e quando è in alto sembra che ravvivi le stelle, come uno che soffi sulle braci: così ho visto fare ai contadini nelle domeniche immaginate dell'infanzia. Immagino ancora oggi, non ho perso il vizio, e temo che tutto ciò che vedo sia appunto una fantasia, l'affabulazione di un uomo che non ha capito com'è che va il mondo, che è figlio del caso. Mi hanno spiegato che lassù, verso una qualche direzione, c'è una strada che non finisce mai, che passa attraverso il tempo e i buchi neri, e che a guardare la terra da un miliardo di anni luce vedrei la sua insignificanza. Perché allora do tanta importanza alla mia vita, a quello che scrivo, alle competizioni, all'età che cresce, al dolore, agli spaventi? Tento ogni giorno di affermare la mia ragione su quella degli altri e se non ci riesco - se quelli non si convincono, se prendono a detestarmi - ci sto male, non capisco come possano essere tanto ciechi. Benché sappia da un po' che la verità ha mille forme, cerco sempre di imporre le mie ridicole certezze: un'impuntatura infantile da cui non so guarire. Così fumo, e mentre comincia la notte m'appoggio con la schiena al muro. Una volta arriva una musica tribale da una macchina in corsa; un'altra un corteo di voci di ragazzi s'ingrossano e poi s'assottigliano, allontanandosi; un'altra ancora la mia speranza prende il sopravvento, e m'auguro con tutto il cuore che questa stanza buia in cui siamo prigionieri abbia una ragione comprensibile, e non men che soave.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
Guardare con occhio aperto e distaccato la propria vita penso sia frutto di una consapevolezza che a volte può creare dolore, altre volte serenità e pace con se stessi. Grazie per gli spunti su cui riflettere!
RispondiEliminaSono d'accordo: è importante cercare di guardarla con la massima nitidezza possibile. Grazie a te.
Elimina