Tutti i creativi hanno un amico che si chiama Velasquez, e dunque ce l'ho pure io, che impalco invenzioni da quando a mia moglie venne il cancro. Da quella stagione in avanti, ogni tanto si presenta alla porta e mi propone di partire con lui. Una volta ha la giubba da capitano di vascello, un'altra la cotta di ferro e l'elmo, un'altra ancora il saio da mendicante e i sandali ai piedi. Suona il campanello con un codice di trilli strambo, tutto suo, una specie di drin dirindrin drindrì e io senza affacciarmi capisco chi è. S'annuncia squillante ma non reca buone notizie, né allegre; è al contrario una lusinga pericolosa, vorrebbe strapparmi via da tutto quello che è tetro e ripetuto e tentarmi d'avventura. Mi garantisce che vivrei benissimo solo della mia arte e quando io gli domando Che arte? lui risponde Su, non sottovalutarti, lascia la modestia a casa e partiamo! Più di una volta sono stato sul punto di dargli retta, piantare tutto e seguirlo, come un apostolo, ma alla fine dei conti qualcosa mi ha sempre trattenuto. Il senso di responsabilità, certo: Gesù se è un peso. Ma mica solo quello. Devo combattere, a ogni seduzione di quel giannizzero, contro l'educazione a contentarsi, la morale della cautela, devo soccombere e poi negarmi al viaggio. Vincere vorrebbe dire, al contrario, tagliar la corda per sempre, dilapidare quel poco di buon senso che mi è rimasto e vivere dissennato, e felice. Non che ora non lo sia, felice dico, e dopo la stagione degli uragani chi se l'aspettava, però quella felicità che lui promette - che consiste essenzialmente nel montare il palco ogni sera in una città diversa - avrebbe una natura inedita, probabilmente sconcia. Troppa felicità dicono sia sconveniente, manca di rispetto a dio, che ci vuole malinconici e raccolti nel mistero. L'addio a tutto - a cui mi tenta Velasquez, ma dandomi di continuo la speranza del ritorno - sarebbe dunque blasfemo. Però ogni volta che lo metto alla porta - lui che è così uguale a me che è come se a guardarlo mi specchiassi, - prego che non si stanchi mai di venirmi a cercare.
Il primo Natale dopo la grande tenebra è una stagione vicina eppure antica: undici anni or sono. Là dentro decisi che non me ne importava più delle mie canzoni, dei libri che mi avevano spaccato a metà, e che mi sarei abbrutito, se ne fossi stato capace. Gli altri, intorno, continuavano a fare le cose con noncuranza, come se Alessandra fosse uscita a comprare candele e centrotavola e tutti sapevano che sarebbe arrivata in tempo per il cenone. Scartai il regalo che mi fece qualcuno che non ricordo e dentro c'era un libro di viaggi nello spazio: un suggerimento, avrei dovuto cercare mia moglie dappertutto, nell'universo, tranne che su questo pianeta. Poi venne il primo gennaio, poi il mio compleanno, poi marzo - che ho sempre amato, per via della sua schizofrenia - e poi aprile, mese che ci trasformava per due giorni in amanti affamati, al mare, ed era quando non avevamo altri legami al mondo che il nostro. Ci andai lo stesso, al mare, con mia figlia, e commisi l'errore di ra
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