Tutti i creativi hanno un amico che si chiama Velasquez, e dunque ce l'ho pure io, che impalco invenzioni da quando a mia moglie venne il cancro. Da quella stagione in avanti, ogni tanto si presenta alla porta e mi propone di partire con lui. Una volta ha la giubba da capitano di vascello, un'altra la cotta di ferro e l'elmo, un'altra ancora il saio da mendicante e i sandali ai piedi. Suona il campanello con un codice di trilli strambo, tutto suo, una specie di drin dirindrin drindrì e io senza affacciarmi capisco chi è. S'annuncia squillante ma non reca buone notizie, né allegre; è al contrario una lusinga pericolosa, vorrebbe strapparmi via da tutto quello che è tetro e ripetuto e tentarmi d'avventura. Mi garantisce che vivrei benissimo solo della mia arte e quando io gli domando Che arte? lui risponde Su, non sottovalutarti, lascia la modestia a casa e partiamo! Più di una volta sono stato sul punto di dargli retta, piantare tutto e seguirlo, come un apostolo, ma alla fine dei conti qualcosa mi ha sempre trattenuto. Il senso di responsabilità, certo: Gesù se è un peso. Ma mica solo quello. Devo combattere, a ogni seduzione di quel giannizzero, contro l'educazione a contentarsi, la morale della cautela, devo soccombere e poi negarmi al viaggio. Vincere vorrebbe dire, al contrario, tagliar la corda per sempre, dilapidare quel poco di buon senso che mi è rimasto e vivere dissennato, e felice. Non che ora non lo sia, felice dico, e dopo la stagione degli uragani chi se l'aspettava, però quella felicità che lui promette - che consiste essenzialmente nel montare il palco ogni sera in una città diversa - avrebbe una natura inedita, probabilmente sconcia. Troppa felicità dicono sia sconveniente, manca di rispetto a dio, che ci vuole malinconici e raccolti nel mistero. L'addio a tutto - a cui mi tenta Velasquez, ma dandomi di continuo la speranza del ritorno - sarebbe dunque blasfemo. Però ogni volta che lo metto alla porta - lui che è così uguale a me che è come se a guardarlo mi specchiassi, - prego che non si stanchi mai di venirmi a cercare.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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