Nonostante io ascolti esclusivamente musica d'autore italiana - cosa per la quale certi amici spiritosi mi danno del fanatico - per paradosso trovo che le tre melodie più belle che siano mai state scritte - almeno a livello popolare - siano straniere. Sono canzoni che mi hanno addolcito il tempo in stagioni diverse della vita, costruite secondo sequenze armoniche di perfetta letizia, segno che chi le ha composte sapeva cosa stava facendo, e come si scrive la tenerezza. Mi fanno sovente da colonna sonora, in questa epoca matta di coprifuochi e allarmi, e rallentano la paura, combattono i presagi cattivi, m'accendono la voce e mi incoraggiano a cantare, in barba a chi ride a sentirmi. Ve le racconto, perché le ho un po' studiate, ne ho indagato la genesi, e così facendo me ne sono innamorato ancora di più. Allora, in ordine casuale. La prima di queste meraviglie è Hey Jude, dei Beatles. Ha un finale lunghissimo, sembra il coro di una festa, è stata scritta nel 1968, avevo un anno, si vede che qualcuno me la faceva sentire in radio, nella culla. Sapete, uno di quei brani che nascono per necessità: pare che Paul volesse consolare il figlio di John per via che il padre stava divorziando dalla madre, per correre da Yoko Ono. Insomma è nata su un dolore, una lacerazione, ed è singolarmente unita, eccelsa, un crescendo di poesia anche se non sai l'inglese. Un miracolo. Il secondo miracolo è dell'anno prima, l'ha cantata Louis Armstrong prima di cento altri, si chiama What a wonderful world. L'idea era quella di riassumere nel testo le cose per cui vale la pena vivere ma senza offesa per il poeta ciò che è spaventosamente perfetto è la musica. Non puoi togliere o aggiungere una nota: crollerebbe tutto. La ricordo piazzata con studiata vigliaccheria sopra una scena di un film sul Vietnam, in cui Robin Williams faceva il deejay scemo. Lacrime a torrenti, non esagero. E poi c'è l'ultima canzone delle tre, che mi sciolgono il sasso nel petto. A volte lo è, non sempre. Un sasso, dico. La canzone è Stille Nacht, che in inglese diventa Silent Night e in italiano, più banalmente, Astro del Ciel. Una canzoncina natalizia dalla grazia sublime, di origini austriache, composta tra il 1816 e il 1818. A onta di quella linguaccia scabra che è il tedesco, è un canto di una dolcezza infinita. Se posso consigliare una versione tra le tante, prima di chiudere, è quella incisa una trentina di anni fa da Ornella Vanoni. Anche il Natale più malinconico si scioglierà in un tepore di speranza.
C'è una murata di scogli a cento metri dalla riva, mia figlia arrivava fin là. Più al largo non si tocca e a turno io e mia moglie le facevamo la guardia, dritti sul bagnasciuga, rischiando l'insolazione. Ciononostante ogni tanto spariva tra quelle onde docili, pochi attimi, per poi riapparire in qualche tratto più vicino alla spiaggia. Troppo tardi, a me era già venuto un infarto. Meno apprensiva mia moglie: forse già sapeva che in capo a tre anni ci avrebbe lasciati soli e voleva mostrarmi come gestire razionalmente il panico di una figlia in mare aperto. In senso letterale e metaforico. Era il 2009 e dopo sedici anni sono tornato qui, ma l'albergo dove soggiornammo inquieti e preda di una felicità a breve termine l'ho solo sfiorato: ho preso una camera nell'albergo accanto dalla cui finestra, guarda tu il caso, si intravede la camera di allora, un suo spiraglio almeno. Perché l'ho fatto? Perché non sono mai riuscito a maledire il passato, provo anzi una sort...
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